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Giornalismo di guerra e giornalismo di pace

di Giampaolo Cadalanu

Pubblichiamo l’intervento del giornalista Giampaolo Cadalanu al seminario professionale “Giornalismo di Pace”, tenutosi a Roma il 6 novembre 2025

Perché scoppiano le guerre? Secondo Karl Kraus, i diplomatici raccontano bugie ai giornalisti e poi credono a quello che leggono sui giornali. È una visione paradossale, ma non lontana dal vero. In contesti di tensione i mezzi di comunicazione – giornali, tv, radio, siti web, social network e tutto quello che la tecnologia digitale ci riserva – sono sicuramente in grado di fare del male. Possono aizzare l’odio, favorire la disumanizzazione, persino diventare strumenti di genocidio. L’esempio più facile è Radio Milles Collines, l’emittente del Ruanda che si guadagnò il soprannome di Radio Odio quando nel 1994 prese un ruolo attivo nel genocidio dei tutsi, con incitamenti al massacro di ferocia illimitata. Ma basta guardare alla storia, per capire: sui media il meccanismo che nutre il rancore e l’avversione, approfondendo la lontananza fra gruppi di esseri umani, trova applicazione continua, spesso senza reale consapevolezza dei giornalisti.

L’informazione però può aiutare anche ad andare verso la pace: il “buon giornalismo” è già da solo uno strumento di pacificazione. Fare informazione corretta, imparziale quanto ogni giornalista può essere ma allo stesso tempo trasparente, senza toni eccessivi o esasperati, permette di sfuggire ai meccanismi di paura, odio e demonizzazione su cui si basa chi vuole il conflitto.

Ma questa indicazione non può essere sufficiente. A chi lavora nei mezzi di informazione serve un’inquadratura meno generica, e qualche indicazione di metodo. Gli studiosi hanno provato a definire il “giornalismo di pace”, partendo da quelle che considerano le basi discutibili del giornalismo occidentale, cioè l’attenzione allo status di persone e luoghi, all’azione e agli aspetti di crisi, ovvero alla vecchia regola secondo cui una notizia non è tale se non è cattiva. In altre parole, la notizia ideale è qualcosa di negativo che accade a una persona dell’élite in un Paese d’élite. L’attenzione agli aspetti negativi (cioè alla crisi) deriva addirittura, secondo gli studiosi, da Aristotele, secondo cui – banalizzando – il racconto delle vicende umane può essere solo tragedia o commedia.

Partiamo dalla coscienza che la pace non è un fenomeno statico, cioè una meta che rimane una volta raggiunta, ma è invece un processo in continuo sviluppo, e quindi deve essere seguito e se possibile coltivato. Come primo possibile modello di lettura proviamo ad adottare una visione binaria: giornalismo di guerra/giornalismo di pace. Il primo parte da una visione del conflitto come un gioco a somma zero, dove si vince o si perde, e il giornalismo serve solo a raccontare gli esiti della violenza. Il secondo ne favorisce l’analisi, ne esamina le cause, presenta le possibili soluzioni non violente anche a costo di scostarsi dall’idea tradizionale di giornalismo come testimonianza distaccata e obiettiva.

Il giornalismo di guerra spesso fa una scelta di campo, e rischia di vedere “gli altri” solo come un problema, finendo per accettarne la disumanizzazione e contribuendo a costruire l’antagonismo, magari esaminando solo i peccati della parte avversa. Cerca soluzioni solo sul campo di battaglia, andando a cercare il gesto iniziale dello scontro e non le sue radici storiche, e riferisce solo la visione delle élite.

Per il “giornalismo di pace”, invece, il problema è nella guerra, non negli “altri”. E dunque il resoconto della guerra non basta, perché il conflitto non è necessariamente sinonimo di scontro violento, ma può essere definito in senso ampio come “una relazione tra due o più partiti che hanno – o pensano di avere – obiettivi incompatibili”. Per questo devono essere considerate e valorizzate le possibili risposte nonviolente al conflitto, anche se questo comporta un supplemento di impegno e l’abbandono di un approccio fintamente “freddo” ed equidistante alle ragioni dei contendenti.

L’approccio dell’accademia individua un “giornalismo di pace” proattivo, quello che nella tradizione anglosassone si chiama advocacy journalism”, cioè giornalismo militante. Ma questa visione rischia di apparire rigida e poco adattabile alle logiche del giornalismo occidentale, che si radica, almeno come intenti, su una visione di non partigianeria.

La linea di ogni mezzo di informazione, cioè la visione specifica di ogni medium è sempre molto presente nel lavoro, ma pochi mezzi di comunicazione la dichiarano in modo aperto. Pur ammettendo che l’obiettività è una chimera, la neutralità viene vista come uno scopo a cui tendere, mentre le prescrizioni di condotta rischiano di appesantire il lavoro giornalistico rendendolo poco gradevole e dunque non concorrenziale.

Facciamo un esempio di dichiarazione d’intenti preventiva: la tv satellitare del Qatar Al Jazeera ha sottolineato quali sono le differenze fra la sua copertura e quella di emittenti occidentali come la CNN. Secondo Al Jazeera, i media dell’Ovest raccontano che cosa succede quando un missile viene lanciato, mentre la tv qatariota si impegna a riferire che cosa succede quando il missile arriva sul bersaglio.

Entriamo ancora di più nelle indicazioni pratiche. L’Institute of War and Peace Reporting, una rete internazionale di giornalisti, presenta “sei doveri” per i giornalisti che si occupano di conflitto e pace: dovere di comprendere il conflitto; dovere di riferire in modo equo; dovere di denunciare i retroscena e le cause del conflitto; dovere di presentare il lato umano; dovere di riferire sugli sforzi di pace e dovere di riconoscere le influenze del giornalismo.

Senza esigenze di inquadramento accademico, possiamo cominciare a individuare una base per strumenti di lavoro, tenendo presente che il giornalismo di pace non può essere altro che una tendenza, una aspirazione, in continua evoluzione, soggettiva senza pretese di oggettività. Possiamo provare a sintetizzare alcune osservazioni introdotte in maniera non organica, da considerare come base per la creazione di una prospettiva che tenda il più possibile a una trasformazione dei conflitti in chiave non violenta.

1) Equilibrio nelle fonti: valutazioni non partigiane, non schierate, comprensive e aperte al racconto della storia. Esplorare il contesto e le radici storiche che hanno portato ai conflitti, presentando con adeguato rilievo le cause e le opzioni di ogni parte coinvolta, così da fornire un quadro realistico e trasparente all’audience. Se il giornalismo di guerra denuncia solo le bugie dell’altra parte, quello di pace sottolinea anche i problemi della propria. Il giornalismo di guerra “ascolta” solo fonti d’élite, quindi alti ufficiali, politici, funzionari, portavoce. Quello di pace porge l’orecchio anche ai cittadini, ne racconta i problemi concreti e l’esperienza quotidiana, restituendo un’idea della guerra molto meno “asettica”.

2) Equilibrio nei toni: si rifiuta l’esasperazione della propaganda guerresca e allo stesso tempo si valuta con attenzione ogni scelta di linguaggio. Parole come “terrorista” oppure “genocidio” vanno usate con cautela, altrimenti rivelano una scelta di campo esplicita, che non aiuta alla composizione dei contrasti. Un passaggio fondamentale del giornalismo di pace è anche il rifiuto delle dinamiche abituali per la propaganda bellica: non solo la celebrazione delle armi come alta tecnologia, ma soprattutto i meccanismi di disumanizzazione dell’avversario, che sono sempre serviti a stimolare l’aggressività contro soggetti “diversi” da noi. L’attenzione nella scelta dei termini da usare si avvicina alle cautele spesso troppo limitanti del politicamente corretto. Ma l’accuratezza resta indispensabile, perché l’informazione non perda credito e resti autorevole.

3) Contenuti: attenzione alle soluzioni, non solo ai conflitti. E rilievo alle somiglianze, non solo alle differenze. Qualche studioso propone anche un ruolo proattivo del giornalismo, con l’offerta di idee per la risoluzione dei conflitti, per lo sviluppo, per il raggiungimento e la tutela della pace. Trasparenza per aumentare l’empatia e la comprensione fra avversari.

4) Completezza di informazione: si svelano le bugie, gli inganni, e i responsabili, rivelando allo stesso tempo gli eccessi commessi e le sofferenze subite di ogni parte coinvolta. La trasparenza rende possibile la comprensione del punto di vista avversario, e arriva a stimolare l’empatia. La trasparenza è indispensabile anche verso i lettori: va precisato quali sono le condizioni del lavoro giornalistico, se la raccolta di informazioni è stata controllata da una delle parti e ancora di più se il lavoro giornalistico è sottoposto a censura.

5) Attenzione alle vittime: non numeri, ma persone, ognuna con una storia umana originale e irripetibile. La sofferenza è da tutte le parti, e non viene “compensata” con una logica da legge del taglione.

6) Bilanci: nelle dinamiche della geopolitica non si deve presentare il gioco come sempre a somma zero. Il giornalismo di guerra si costituisce di elementi come la violenza, la propaganda, la celebrazione delle élite, la ricerca della vittoria, e dunque presenta un gioco a somma zero. Il giornalismo di pace si basa sulla non violenza, sulla aspirazione alla verità, sul rispetto delle persone, sulla ricerca delle soluzioni. In altre parole, costituisce una visione di possibile win-win, dove il punto di arrivo con la soddisfazione di uno non corrisponde al sacrificio dell’altro.

7) Prospettive: presentare gli sviluppi a lungo termine e non solo gli eventi attuali. Si deve prestare la dovuta attenzione alle storie di pace e agli sviluppi post-bellici. Quando le armi tacciono, il giornalismo di guerra esce di scena, mentre il giornalismo di pace, come approccio orientato al processo, rimane sulla scena, in seguito alle conseguenze dell’accordo di pace.

8) Attenzione agli elementi positivi in un contesto di crisi, non solo ai fatti negativi. Attenzione alle tendenze complessive, non solo agli eventi personali. Ridimensionare la logica del tipo ideale di notizia: un evento negativo accaduto a persone d’élite in paesi d’élite. La storia di persone comuni, con sentimenti facilmente condivisibili, raccontata in modo pacato, restituisce una visione della guerra più corretta di quella ormai meno credibile sugli eroi e sui gesti di sacrificio.

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