Giorgia e il mostro dell’abilismo

Giorgia Meneghesso è impiegata e insegnante di canto. Nata con osteogenesi imperfetta, ha imparato a promuovere l’accessibilità. Dal palcoscenico, in piazza e sui social

«Sin da piccola sognavo di essere in un musical». Ed eccola qui: sul palco, a meno di un’ora dalla prima. Sarebbe “solo” il coronamento di un sogno come tanti, se non fosse giunta molti anni dopo una diagnosi di quelle che i sipari li chiudono. L’osteogenesi imperfetta, o “la malattia delle ossa fragili” è una patologia rara provocata da un’alterazione del Dna. Ci si nasce, anche se non è necessariamente ereditaria, e causa fratture ricorrenti anche senza cadute o altri traumi. In tutte le sue varianti, prima o poi la sedia a rotelle diventa necessaria per una mobilità senza rischi e una vita in autonomia.

Anche per Giorgia Meneghesso (di Cassano Magnago, in provincia di Varese) è stato così. «Mi è capitato tante volte di fratturarmi – racconta –, ma prima del 2017 potevo muovermi con una certa autonomia. Poi ho cominciato ad usare carrozzina e stampelle». Già da bambina Giorgia amava cantare, e oggi insegna canto. «Da ragazza mi esibivo nei locali, poi ho smesso, fondamentalmente a causa delle barriere architettoniche e di quelle mentali (i pregiudizi). “Ah, tu canti? Non ti avrei dato due lire!”, mi sentivo dire, per via dell’aspetto fisico». Si impiegò allora in un ufficio, mentre continuava a specializzarsi nell’insegnamento e a far lezione. Ma l’idea di salire su un palcoscenico era sempre lì, riaccesa poi dalla serie tv Glee, grazie all’aspirante artista paraplegico Artie e a diverse coreografie in sedia a rotelle.

Nel 2019 Giorgia conosce Riki Rubino, direttore insieme a Cristina Trumpy di Bailando Academy, una scuola di ballo e musical nella vicina Somma Lombardo. Gli fa ascoltare qualcosa e chiede di partecipare al musical che stavano preparando insieme alla Compagnia della Rancia. Si tratta di Grasso è bello, un adattamento del film Hairspray, con John Travolta nel divertentissimo ruolo della “robusta” Edna Turnblad. «Volevo una compagnia che non fosse dedicata in modo speciale alle persone con disabilità. Perché con un po’ di dialogo e di attenzione, ci si può integrare. Certo, in scena non è tutto pensato per noi, anche perché nel mondo dello spettacolo c’è pochissima rappresentazione di chi ha qualcosa di diverso fisicamente. È un tabù. Ma sarebbe ora di cominciare a pensarci».

Riki e Cristina accettano subito. E soprattutto «senza pietismi», sottolinea Giorgia. «Ci siamo detti rispettivamente di che cosa potessimo avere bisogno e dopo due anni (per via del Covid) eccoci qua!», a vestire i panni di “Parlantina” Maybelle. Eppure, non sarebbe molto complicato… «Bastano piccoli accorgimenti, come spostare le americane in modo che non intralcino, adattare l’altezza delle luci o stare attenti a come si entra ed esce dal palco». L’“esperimento” è riuscito. Lo confermano i direttori. «Non avevo esperienze di questo tipo – spiega Cristina –. Alla fine vedi le cose da un altro punto di vista. È una crescita per tutti. Il mondo è pensato per lo standard. Si capisce… ma è ora di sdoganare certe cose», conclude.

Riki è stato subito colpito dall’«energia pazzesca» di Giorgia. «Ci siamo conosciuti grazie a un amico comune. È venuta al corso di musical e le ho detto: “Sei nel posto giusto: ci aiutiamo, c’è spirito di gruppo. Ok, proviamoci!”». In effetti, il resto del cast ha lavorato con lei in modo naturale. «È un ambiente molto sano. Ci si incoraggia a vicenda», aggiunge allegramente soddisfatto. Per Giorgia questa esperienza ha una valenza motivazionale. «Vorrei che i ragazzi e i giovani che pensano “No, io non posso” sappiano che invece si può fare. C’è solo bisogno di spingersi un pochino oltre la propria zona di comfort. Per ora. Poi magari, tra qualche anno sarà uso comune…».

A lei avevano proprio insegnato che non ce la poteva fare. Finché si è detta: “Perché? Ne sono capace, artisticamente penso di essere all’altezza…”. Per il resto ci si parla. Chi non è in carrozzina non si rende conto di quali possano essere le difficoltà e quali no. Per esempio, durante le prove, i compagni tendevano a spingere la sua sedia a rotelle. Ma «non conviene. Meglio lasciar fare e, se ne avessi bisogno, te lo dico». In generale, in teatro «non ci sono ruoli per persone disabili – afferma Giorgia –. E quando ci sono, di solito li ricoprono attori non disabili». Ma quasi tutti i ruoli «si possono adattare per persone disabili senza snaturare nulla».

Includere personaggi disabili a volte li strumentalizza a una falsa inclusione, al politically correct o «per voler mettere il freak a tutti i costi». Per Grasso è bello si è modificato pochissimo. «Abbiamo solo adattato alcune scene per facilitare entrate e uscite – illustra Riki –, ma il racconto è quello dello schema originale». La scelta del testo è stata una felice coincidenza con il successivo inserimento di Giorgia. Volevano rappresentare «temi attuali come la diversità, la necessità di aiutarsi anziché discriminare», spiega il direttore.

La contrapposizione bianchi/neri stigmatizzata nell’originale dal Negro day qui è tra ricchi e poveri. Durante il confinamento forzato del Covid, Giorgia ha approfittato della “reclusione” per specializzarsi in un altro metodo didattico e per formarsi mediante i disability studies, che l’hanno spinta a dedicarsi all’attivismo. In particolare, ai viaggi accessibili e alla lotta all’abilismo.

Un momento del musical “Grasso è bello” al teatro Manzoni di Busto Arsizio (Va). Foto: Silvano Malini

Il termine, che indica la discriminazione spesso incosciente verso chi non è “standard”, è ben illustrato proprio dalla scarsa possibilità che le persone disabili hanno di muoversi autonomamente. «Le leggi per l’accessibilità ci sono, ma spesso l’abbattimento delle barriere ha un costo elevato, quindi si preferisce lasciar perdere». La cosa peggiore è che questo «è un messaggio della società alla diversità in generale». Ti dice che non è per te. Che sei sbagliato. Che non puoi. Si dà per scontato che chi è in sedia a rotelle debba essere sempre accompagnato da qualcuno e non possa fare una vita “normale”. «Perché io non dovrei fare spettacoli, se sono un’artista? Perché la società mi impone di non farlo? Non sono io che mi devo adeguare, è la società che deve farlo. La disabilità si crea soltanto nel momento in cui la mia limitazione viene a contatto con una società che non mi fornisce strumenti per superarla. Altrimenti è una condizione neutra, è parte della diversità delle persone. E poi potrebbe anche riguardare tutti prima o poi: perché invecchiamo o perché può succedere a noi o ai nostri affetti».

Le domando se non le succede di abbattersi o di piangersi addosso. «Sono sempre stata cosciente di quello che sapevo fare cantando, ma sull’aspetto fisico ho dovuto fare un bel lavoro su di me, per accettarmi, anche con l’aiuto dello psicologo. Non è facile. Ma a 40 anni ho fatto pace con tante cose». Poi momenti difficili capitano, come capitano a tutti. Anche durante le prove dello spettacolo c’è stato qualche momento di sconforto. «Ma te lo fai passare: è più importante lo spettacolo. E poi, a cosa serve piangersi addosso? Bisogna andare avanti».

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