Giobbe e Leopardi (che morì cristiano)

Su Leopardi si continua a studiare e a scrivere, giustamente, perché il poeta-filosofo è una delle massime coscienze europee degli ultimi due secoli, ma il recente saggio di Loretta Marcon Giobbe e Leopardi – la notte oscura dell’anima (editore Guida) si raccomanda, oltre che per la tematica finora quasi inesplorata, per la probità e onesta intellettuale dell’autrice, che con padronanza dei testi e della critica, e senza nessun pregiudizio ideologico (di cui gli studi su Leopardi sono largamente intessuti, quasi inevitabilmente, a causa della vastità leopardiana che non può non coinvolgere le ideologie che la affrontano), insegue il tema come in uno sviluppo musicale contrappuntistico, mai concluso da identificazioni o divaricazioni: Giobbe e Leopardi risultano e restano ben distinti e indissociabili. Ma Leopardi stesso era troppo grande per le prigioni ideologiche, e così, simpateticamente, la Marcon lo centra: Nel pensare leopardiano nessuno prende il posto di Dio, nessun mito di progresso umano, nessuna illusione sulle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, nessuna filosofia. Il mondo rimane vuoto. Da parte sua Giobbe millenni prima si era sdegnosamente smarcato da quegli amici teologi-ideologi che volevano adattare le sue sventure a teoremi di colpevolezza, sua o di innocenza, di Dio, mentre lui restava innocente e Dio incomprensibile. Il fatto è che sia il Leopardi biblico che il Giobbe di Recanati non sono dei piagnucolanti, il lamento dei due non è il lamentarsi che tutti conosciamo, è invece il piangere dell’anima che Leopardi conosceva in Giobbe e sperimentò terribilmente in sé stesso. Perciò il recanatese non sopportava i nuovi credenti (titolo di una satira del periodo napoletano, ultimo) i quali coniugavano disinvoltamente Cristo con mangiate di spaghetti e condannavano il dolore pessimista di uno come lui che Giobbe e Salomon difende. Leopardi conosceva bene Giobbe e 1’allora creduto autore del Qoèlet (o Ecclesiaste), e non trovava certo nella terrificante educazione familiare cristiana i segni di un Dio pietoso e tanto meno di un Dio-Amore, che gli facessero accettare l’inaccettabile, come Giobbe aveva trovato, nell’infinità insondabile di Dio, una conoscenza sperimentale – attraverso il dolore – del mistero, ingiudicabile. La vera differenza decisiva, spirituale, tra lui e Leopardi, più di tutte le differenze di civiltà, d’epoca, di costume, sta nel fatto, che nella sua insuperabilità si rivela tragico, dell’impossibilità per Leopardi di superare il vertiginoso scalino illuministico, vero handicap psicologico-filosofico, dell’autosufficienza della ragione, divenuta per contrazione e irrigidimento raison: con quella sola, un animo puro e nobile come quello del poeta del Canto notturno non poteva non approdare all’infinita spiaggia del dolore irredimibile; del, per citare un grande leopardiano moderno, Carlo Emilio Gadda, fulgurato scoscendere di una vita. Come Leopardi sia riuscito, nella sua notte, a mantenere gli occhi aperti nel buio, e cioè a non uccidersi, ce lo spiega lui stesso in pagine memorabili dello Zibaldone, delle Operette morali e nel Frammento sul suicidio, ma resta inspiegabile, anche per un lettore laico, se non al livello di un’altissima religione umana, di un senso dell’animo , come lo chiama il poeta, che implica solidarietà con l’universale sofferenza: unica àncora alla vita di chi, dice la Marcon, non sentiva la vicenda cristiana dell’Incarnazione, perché in fondo all’anima ritrovava sempre il volto gelido di un giustiziere. Giobbe e Leopardi si fanno le stesse domande, oltre che sul dolore, sulla prosperità dei malvagi e l’afflizione dei giusti; Giobbe trova infine la chiave non per rispondervi ma per rispettarle, cioè il mistero, che gli rende possibile l’abbandono in Dio; Leopardi guarda intrepidamente il deserto della vita e riesce, questo sì è il suo mistero (religioso mistero), a non gettarsi, per l’insostenibile sofferenza, né nel non essere né nei conforti ideologici. Sentendosi totalmente abbandonato e anzi perseguitato (come Giobbe) da Dio, ne sostiene l’abbandono, avvicinandosi proprio così, inconsapevolmente, al cuore profondissimo del cristianesimo, e tanto più, perché non fa il passo di Giobbe, il pur grande, ma inferiore, abbandono al mistero. Loretta Marcon (ci fossero oggi, in Italia, molti studiosi come lei, fuori dalle ideologie e dai poteri accademico-editoriali, invece sono pochissimi) ci guida passo passo sulla via di queste considerazioni, che sulla sua traccia ho solo prolungato fino alla Croce stessa. Motivo per non perdere questo saggio, e anche per non stupirsi apprendendo (i critici ideologici hanno fatto di tutto per nasconderlo) che Leopardi morì cristiano (testimonianza del suo ospitale amico Antonio Ranieri): Giacomo Leopardi mi aveva fatto giurare di chiamargli il prete, se lo vedessi in pericolo; e così ho fatto, ed ebbe il prete, e il Viatico e tutti i sacramenti.

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