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Gaza, il ritorno a casa di ostaggi e prigionieri

a cura di Chiara Andreola

Hamas ha rilasciato, come previsto dal piano proposto dall’amministrazione Trump, gli ostaggi ancora in vita. Reazioni in tutto il mondo, mentre si attende l’attuazione del resto degli accordi

Uno degli ostaggi israeliani rilascati da Hamas, Ziv Berman, in arrivo all’ospedale di Rmaat Gan, vicino a Tel Aviv. Foto Ansa/EPA/ATEF SAFADI

Si era parlato di un possibile scambio – ostaggi detenuti ha Hamas a Gaza, contro prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane – già nel weekend; si è infine arrivati a lunedì, 13 ottobre, quando è stato dato l’annuncio del ritorno a casa degli israeliani ancora in vita che da ormai due anni erano tenuti in ostaggio. Le spoglie dei 28 morti saranno invece consegnate tra il pomeriggio e la serata.

Sono venti quelli che hanno dunque fatto ritorno in Israele e alle loro famiglie, consegnati in due fasi alla Croce Rossa (prima sette, poi gli altri tredici): la notizia è stata accolta da un lungo applauso nella Piazza degli Ostaggi a Tel Aviv, e dai messaggi di felicitazione del presidente israeliano Herzog. Hanno fatto seguito numerosi altri esponenti politici mondiali: in primo luogo il presidente Usa Donald Trump, fautore dell’accordo, definito ad Axios come «forse la cosa più importante in cui abbia mai preso parte». Trump era in quel momento in viaggio verso Israele per un discorso al Parlamento di Tel Aviv, la Knesset, dove è stato accolto in piedi e con un applauso – mentre pare essere stato riservato il gelo a Netanyahu.

La presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha parlato di una «giornata storica»; mentre il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ribadito la linea a favore della soluzione “due popoli, due Stati” e confermato l’impegno italiano in questo senso. Parole simili dalla presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, che ha assicurato il sostegno sia economico che politico dell’Unione alla popolazione di Gaza e all’Anp nella ricostruzione sia fisica che istituzionale. Anche il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha dichiarato che Mosca è disponibile a contribuire all’attuazione del piano Trump all’interno del vertice in corso in Egitto con gli Stati arabi (a cui Netanyahu ha appena annunciato che on parteciperà), per quanto la Russia mantenga «scetticismo sul raggiungimento di una soluzione sostenibile nella Striscia di Gaza».

Nel contempo, alcuni detenuti palestinesi sono stati rilasciati dalle carceri israeliane: l’agenzia di stampa palestinese Wafa parla (al momento in cui scriviamo) di alcune centinaia già giunti a destinazione su quasi duemila, accolti – riferisce Al Jazeera – dalla folla festante a Ramallah. Sempre secondo Al Jazeera, le forze armate israeliane avrebbero tuttavia esploso dei lacrimogeni verso la folla in attesa della liberazione dei detenuti fuori dal carcere di Ofer. Hamas, dal canto suo, ha dichiarato tramite il proprio portavoce Hazem Qassem di chiedere «a tutti i mediatori e alle parti internazionali di continuare a monitorare la condotta di Israele e di garantire che non riprenda la sua aggressione contro il nostro popolo a Gaza».

La vicenda è ancora in pieno sviluppo, dato che si attende il rilascio degli altri prigionieri e la restituzione delle salme degli ostaggi deceduti; e l’attenzione rimane naturalmente puntata sui nodi ancora irrisolti del piano Trump, su tutti il disarmo totale di Hamas e la futura governance della Striscia.

Intanto la notizia occupa comunque l’apertura dei siti di informazione in tutto il mondo: a partire naturalmente da Israele, dove Haaretz – notoriamente mai tenero nei confronti del premier – pubblica un editoriale di Yossi Verter dal titolo «Ora inizia la battaglia di Netanyahu sulla narrazione», intesa come il rendere conto alla Knesset della gestione di questa crisi ora che gli ostaggi sono finalmente a casa: una crisi in cui «racconterà di aver eroicamente resistito a pressioni in patria e all’estero, ma alla fine gli Stati Uniti non gli hanno lasciato altra scelta che cedere».

Anche il New York Times, dall’altra parte dell’Oceano, osserva come Trump sia passato dal mettere «pochi, se non nessuno, limiti all’offensiva israeliana, rigettando le richieste di un cessate il fuoco a livello internazionale» al cambiare linea, evidenziando un cambio di interessi sia politici che economici nell’area, anche il relazione agli altri Stati arabi.

In Russia, il Kommersant definisce quanto sta accadendo in Medio Oriente «uno show di Trump»; mentre il britannico Guardian, sempre attento alla causa palestinese, porta l’attenzione sui gazawi che ora «rovistano tra le macerie in cerca dei propri morti», mentre l’attenzione mondiale è in questo momento spostata dal loro dramma allo scambio – riuscito – di prigionieri. Lo stesso fa lo spagnolo El Paìs che posta tra l’altro una foto di Srebrenica, ricordando come «anche cattivi accordi di pace pongono fine alle guerre: gli accordi di Dayton, che chiusero la guerra in Bosnia, non hanno comportato che non ci sia stata né memoria né giustizia conto i genocidi serbi». Una luce di speranza, insomma, nell’ottica del “un cattivo accordo è meglio che nessun accordo”.

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