Un paio di volte, nella mia piccola vicenda umana, ho avuto modo di partecipare, di vedere cioè coi miei occhi il sorgere di movimenti sociali generativi, quelli che cioè hanno la capacità di riprendere e valorizzare aspirazioni collettive sotterranee. Al di là dell’esito effettivo delle proteste, tali manifestazioni hanno il compito preziosissimo di canalizzare le energie del corpo sociale e di modificare, almeno parzialmente, il sistema di riferimento e di valori di una società. In seconda battuta, hanno la funzione di smascherare l’intollerabilità di un certo abuso di potere da parte dei potenti. Nei fatti, poi, questi movimenti riescono dapprima a canalizzare ma poi anche a disinnescare la violenza che potrebbe tracimare da un sentire sociale impetuoso.
Nel 1977 fui parte alla Sapienza di Roma del movimento di protesta sorto nelle università per una ridefinizione della partecipazione democratica. Era l’epoca della protesta creativa, che generò slogan geniali come: “I Lama stanno nel Tibet”, che se la prendeva con l’allora segretario della Cgil, Luciano Lama, accusato di essersi rinchiuso in una bolla di potere lontana dalle masse. Il risultato del movimento del ’77 non fu particolarmente felice, ma contribuì alla frana del potere della DC e poi anche del PCI.
Quarant’anni più tardi, nel 2019, ho partecipato in tutt’altro contesto, nel Libano diviso e martoriato, alla nascita della Thaoura, la rivoluzione, per un Libano libero dai condizionamenti internazionali, per un popolo riconciliato e nemico della corruzione imperante nella politica del Paese dei cedri: per tre mesi, tutte le sere, scendevamo alla piazza dei martiri per protestare pacificamente. Potere politico ed economico, approfittando anche del Covid, portarono all’aborto della protesta, ma nella popolazione è indubbiamente cresciuto il desiderio e la volontà di libertà e di onestà.
E ora ci troviamo di fronte alla crescita non preventivata della protesta ProPal, a favore della Palestina, che ha preso di mira certi lampanti abusi di potere del governo israeliano e di un certo numero di governi del campo occidentale che permettono atti molto simili al genocidio nella Striscia di Gaza. Al di là delle modalità della protesta, che talvolta degenera in violenza, al di là dell’oggetto stesso della rivolta, colpisce il livello di indignazione che abita nel cuore e nella mente di chi scende in piazza, di chi condivide la protesta rimanendo a casa e non solo di coloro che si sono imbarcati nella flotilla. Un’indignazione che oserei definire post-ideologica, malgrado vi siano coloro che soffiano sul fuoco in funzione antigovernativa. È un sentimento che raggiunge la razionalità nel ribellarsi all’abominio che milioni di umani – “casualmente palestinesi” – sopportano da due anni ormai, e – in misura forse minore ma non meno simbolicamente importante – della tragedia che colpisce gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas.
Non è tanto la mancanza di proporzionalità che colpisce i giovani (e meno giovani) protestatari, tra l’offesa ricevuta da Israele e il martello pneumatico caduto sulla testa dei gazawi, ma l’offesa patita dall’umanità, dall’infanzia, dalla vecchiaia, dalla paternità, dalla maternità, dalla fratellanza. Si ripete la vicenda di Caino e Abele, con – a turno – i miliziani di Hamas o di Hezbollah, con i soldati dell’IDF e con i servizi segreti di diverse nazioni che rivestono i panni di Caino, del primo assassino della storia umana. È quest’indignazione primaria che i protestatari evidenziano. Una purezza di intenzioni originaria che facilmente si trasforma poi in violenza, in intolleranza, anche in antisemitismo, purtroppo. Bisogna che, personalmente e collettivamente, cerchiamo di ascoltare queste grida, e conviene che le ascoltino anche coloro che in questo momento rivestono i panni di Caino. Prima o poi il vento cambierà di direzione, e il Caino di turno si troverà perseguitato e avrà bisogno del perdono di chi è stato offeso. Nessuno tocchi Caino, di nuovo.