Il futuro dei bambini dell’Ucraina

Se non doniamo noi, per aiutarli, chi lo farà?
(AP Photo/Visar Kryeziu)

Giorni difficili e drammatici per l’Ucraina. Vedendo le lunghe colonne di bus e macchine in fuga con i bambini verso zone più sicure, verso l’ovest, mi risuonava la domanda: «E se fossero figli nostri?». Provavo quel misto di tenerezza e di timore per la loro incolumità. Quale futuro per loro?

Non so cosa farei per esser lì, su quelle macchine col loro, a tranquilizzarli e abbracciarli: «Non abbiate paura. Tutto questo finirà e insieme torneremo alle nostre case, a correre e a giocare, a sorridere». E mentre queste frasi mi risuonavano dentro provavo un senso di appartenenza familiare come fossi tra loro, tra i loro padri e le loro madri, che alcuni mai avevano conosciuto.

Mi fluiva quel senso di smarrimento misto a certezza che sí, questi piccoli avrebbero oltrepassato il confine e ricevuto nuovi abbracci, e presto, molto presto la notizia che questo buio era stato solo un sogno. Ci sarà di nuovo luce nelle case, si apparecchierá festosi la tavola e un tepore diffuso dalle nostre vicinanze ci farà saltare e cantare, e sperare.

Mentre nella mia mente si accavallavano questi pensieri, davanti alla porta di un negozio da cui stavo uscendo, una voce di donna da dietro le spalle mi chiama. Mi volto e riconosco una signora a cui avevo prestato aiuto più di dieci anni fa per un problema. Un viso sorridente, familiare, pur da tempo non più rivisto. E così, nell’aggiornarci un po’ su come fosse trascorso il tempo, il discorso va alla guerra ucraina.

Le racconto dei dolori di bambini orfani in fuga. Avevo appena ricevuto da una loro assistente, Mira del focolare di Kiev, la notizia che si stavano dirigendo in lunga carovana di orfani verso la frontiera ungherese e della Slovacchia. Il viso della donna che avevo incontrato è come assorbito da questo racconto, spalanca gli occhi, volge il viso dietro di sé, quasi a nascondersi.

Poi un lungo silenzio, mentre una lacrima le scende dal volto. Di scatto prende il telefono. Poi mi sommerge di domande su questi piccoli. Rispondo come posso, con le poche notizie che avevo ricevuto. Si interessa e parla accalorata come fosse lá sul posto, in quella colonna di auto. Dopo mezz’ora arriva trafilato un signore. È suo marito. Mi mette in mano una busta: «È poco -dice abbassando gli occhi quasi per pudore- ma lo doniamo perché i bambini abbiano un futuro. Lei anni fa a mia figlia ha dato una mano. È cresciuta tanto. Sta bene, tra una settimana le nascerà una bambina».

Mi sono anch’io commosso. Dio sa e provvede con i suoi disegni di luce ad aprire squarci, orizzonti nuovi. Arrivato a casa apro la busta e dentro… una somma inaspettata. A volte, nel vortice quotidiano mi verrebbe comodo lasciar andare le cose e impegnarmi solo superficialmente. È allora – anche se non sempre facile – che mi risuona incessante l’invito di Gesù: «Ero forestiero, ignudo, tremebondo, affamato». E un ulteriore esigente appello mi rieccheggia una domanda che faccio a me stesso: «E se non io, se non noi, chi?». «E se non ora, quando?».

 

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