Fuori dal labirinto della paura

Ce lo ricorda anche Aragorn, personaggio del Il Signore degli anelli di Tolkien, quando, rivolto alla Compagnia dell’Anello, saluta l’amico catturato dalla morte:”Addio Gandalf! Quale speranza abbiamo ormai senza di te? Dovremo fare a meno della speranza. Facciamoci coraggio e freniamo il pianto! Venite! Ci attendono una lunga strada e molte cose da fare”. Disperati, dunque, con una meta lontana, confidando solo nell’operosità. Un quadro di fantasia, ma mai tanto vicino alla realtà odierna. Stiamo infatti scivolando inesorabilmente verso la logica fondata sulla paura. Un’angoscia del presente e del futuro. Un’ansia che attanaglia la mente e che viene eretta a fondamento delle scelte strategiche di questo tempo. I paradigmi si sono rovesciati. Non si progetta più il futuro a partire dalla speranza, ma dalla cruda consapevolezza della paura. La tragedia terroristica dell’11 settembre 2001 ha fatto scoprire a tutti la vulnerabilità totale nella quale vive anche la parte più evoluta del pianeta. In tante parti del mondo si è diffusa l’ossessione della sicurezza e quasi ogni aspetto della vita quotidiana risente di questa inquietante condizione. L’incertezza è tornata a regnare.Tanto che gli esperti parlano ormai di “società globale del rischio”. Non c’è da temere solo le reti terroristiche sovranazionali, ma pure le possibili crisi finanziarie mondiali e il persistente degrado ambientale, il crimine internazionale, la proliferazione delle armi. Rischi che incombono sul futuro dell’umanità in misura crescente, mentre la politica è in evidente difficoltà a maturare scelte strategiche. “La questione principale – chiarisce il sociologo tedesco Ulrich Beck, teorico della società del rischio – è in che modo si possano prendere delle decisioni in condizioni di incertezza, allorché non solo la base di conoscenza è incompleta, ma una conoscenza maggiore implica spesso una maggiore incertezza”. Potrà effettivamente giungere ad una conclusione la guerra al terrorismo fondamentalista? O il poderoso impegno a sconfiggere Bin Laden e affiliati finirà per alimentare e promuovere la rete internazionale di terroristi? A tali quesiti si accompagnano altri pericoli. In nome della prevenzione dettata dalla paura, stiamo scivolando verso la limitazione permanente di libertà fondamentali, il rafforzamento del protezionismo e del nazionalismo, la demonizzazione di quanto è culturalmente diverso. Le sfide globali – da quella bioetica a quella delle risorse naturali – ci sovrastano e ci accerchiano. Tutte faccende enormi e reali, sulle quali hanno voluto riflettere per tre giorni, ad inizio settembre, i lavoratori cristiani delle Acli nel tradizionale convegno di studi, spostatosi quest’anno dalla consueta Vallombrosa ad Orvieto. Sull’analisi delle urgenze planetarie è intervenuto il sociologo Giuseppe De Rita, che ha indicato subito una pericolosa conseguenza. “Attenzione! Il fatto di evocare i rischi globali può diventare un alibi all’impegno personale e deresponsabilizzare gli individui. Non dimentichiamo che ciascuno di noi è oggi meno disposto al rischio, meno appassionato nel lavoro e nelle scelte quotidiane, più “molle” e meno lanciato verso il futuro. Il declino italiano deriva da questo”. La speranza è ridotta a poca cosa. “È la situazione – aggiunge il segretario generale del Censis – di chi dice: “Speriamo che me la cavo, speriamo di evitare la crisi, speriamo che ci sia la ripresa”, ma la voglia del rischio personale si è dissolta. Invece la speranza sta dentro il rischio personale, non c’è quella senza questo. Manca il gusto dell’incertezza. Lo schiavo ama la sicurezza, l’uomo libero preferisce l’incertezza, che è lo spazio dove camminare responsabilmente”. Nel cosiddetto “nuovo disordine mondiale”, sembra che il dialogo sia diventato non solo più difficile ma impossibile da attuare. Primo tra tut- ti, quello tra Islam e occidente. Chiarisce Khaled Fouad Allam, docente di sociologia del mondo musulmano all’università di Trieste e collaboratore de La Repubblica e prima de La Stampa: “Il mondo esterno è adesso avvertito come refrattario di fronte al quale le tendenze sono al ripiegamento o all’odio”. Prospettive? “Non dobbiamo dimenticare che là dove cresce il pericolo nasce la salvezza. La questione dell’Islam interroga il mondo musulmano stesso oltre che l’occidente. Dobbiamo passare da un universalismo astratto ad uno più concreto, che tenga conto della storia e della memoria di ogni gruppo, che sappia incarnare il dialogo nella complessità della vita di oggi. Solo così usciremo dalle nostre fragilità per raggiungere una convivenza universale”. Non basta però lo sforzo di tante singole persone motivate. Vincere la paura significa anche scommettere sul ruolo degli organismi internazionali, i soli capaci di raccogliere le sfide globali e di governarne i rischi. Li vorremmo – ad incominciare dall’Onu – capaci di fronteggiare le emergenze. “La convivenza tra popoli diversi – ricorda Filippo Andreatta, docente di relazioni internazionali all’università di Parma – è una questione che, a livello globale, ha trovato solo di recente soluzioni o tentativi di soluzione. Pensiamo solo che l’idea di “famiglia delle nazioni” (per la quale la tradizione culturale cristiana ha avuto grande influenza) ha solamente 200 anni. Le prime formalizzazioni di quest’idea sono recenti, e le prime soluzioni concrete sono ancora più vicine ai nostri tempi. Hanno tuttavia rappresentato dei passi in avanti sensibili rispetto ai precedenti secoli di storia”. E guai a limitarsi a deplorare la crisi attuale delle Nazioni Unite e le tensioni in seno all’Unione europea. “Dobbiamo guardare con maggiore soddisfazione ai progressi compiuti sul tema della convivenza dei popoli “, ammonisce Andreatta. E indica, come esempio, l’Ue. “Basti vedere la rivoluzionarietà del processo di allargamento, che porta con sé una nuova cultura della convivenza e mette in discussione la concezione dello stato-nazione”. Sarebbe comunque opportuno – è l’auspicio di tutti – ridurre la lentezza di tali cambiamenti in corso. Concorda il docente di Parma, ma fa presente che anche per la schiavitù o il duello con la spada per risolvere i conflitti personali sono serviti alcuni secoli tra l’abolizione per legge e l’abbandono effettivo di quelle pratiche. “Lo stesso processo è in atto per le grandi riforme istituzionali globali”. Certo, sarebbe stato incoraggiante che da Cancun, in Messico, al recente vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio, fossero stati definiti significativi cambiamenti di rotta. Bisognerà ancora aspettare per vedere aboliti i sussidi alle esportazioni dei paesi occidentali, eliminato il vincolo di brevetto sui farmaci per le grandi malattie globali, bloccate le regole della concorrenza a vantaggio di un’ulteriore liberalizzazione. Ma il sistema di difesa dei paesi ricchi non potrà reggere ancora per molto. La speranza e la storia non sopportano il perdurare degli egoismi. Ricorda il teologo George Cottier: “La speranza imprime alla storia il suo slancio e il suo dinamismo, e le impedisce di assopirsi; è un elemento non di disordine, ma di inquietudine benedetta. Si tratta di una speranza che porta la storia al di là della storia”. IL PARADOSSO DELLA SPERANZA VERA “Che cosa significa sperare?”, si è chiesto il filosofo Massimo Cacciari, al convegno di studio delle Acli incentrato sul tema della speranza. “Oggi il filosofo e lo scienziato “sanno”, non sperano. Per cui uno dei timbri dominanti della nostra cultura tecnico-scientifica è la lotta contro la speranza, perché il sapere permette di pre-vedere”. Non vale più nemmeno la speranza derivata dalla cultura greco-romana? “Quella ha un significato molto debole. Platone parla di “buone speranze”. E oggi sperare significa solo “sperare questo o quello”, è uno “sfarinato sperare”. Il progetto cristiano infatti non accoglie o sviluppa la “buona speranza” platonica. La speranza cristiana ha un suo fondamento, perciò è “vera” speranza, non “buona” speranza. Il cristianesimo avverte fino in fondo la paradossalità, la straordinarietà della pretesa di dare fondamento alla speranza. Perciò la speranza è virtù teologale, e non una virtù qualsiasi”. Ma il paradosso della speranza cristiana ha a che fare oggi con la gente? “La speranza scientifica tende a comprendere e possedere il futuro. Il mondo contemporaneo dice: “Spero di poter fare ciò che voglio”. La speranza cristiana afferma esattamente il contrario: è la speranza di poter essere libero, di oltrepassare la propria dimensione naturale. Rimanda al concetto di libertas, che, per i latini, è la condizione filiale”. Vuol dire che siamo liberi solo se siamo in relazione? “Libertas è distinta da licentia. Questa esprime la speranza di poter affermare la propria volontà. Quella significa il senso di una relazione filiale che è indissolubile. Quindi la libertà è la massima cura della relazione”: Qui è il paradosso per lei? “Nella cultura contemporanea, l’individuo viene prima di tutto. La libertà che deriva dal concetto di speranza cristiana esprime invece una follia per il mondo: prima è la relazione, poi l’individuo”. CHIARA LUBICH ALLE ACLI LA SPERANZA NEL PARADIGMA DELL’UNITÀ Invitata per la prima volta al convegno di studi delle Acli, quest’anno sul tema della speranza, Chiara Lubich, ancora all’estero per impegni, ha inviato un intervento video. Ne riportiamo tre passaggi centrali. “Il mondo nel quale viviamo – nonostante le fortissime tensioni a cui tuttora è soggetto – tende all’unità, ad un’unità globale, universale. Nessuno, grazie ai mass-media, è più estraneo all’altro e quindi tutti alla stessa maniera chiedono di essere soggetti della loro storia. I nostri interessi, a Nord e a Sud, sono intrecciati in una interdipendenza che non è più una scelta, ma che, se non governata, rischia di aumentare le differenze. Molti problemi interessano ormai l’umanità nel suo insieme, e richiedono quindi categorie di lettura e modelli di risposta globali. “Il mondo va innegabilmente verso il villaggio globale. È per questo che oggi, in questo contesto, non basta più un cristianesimo individuale fatto di coerenza ed ascesi personale: testimonianza questa non più sufficiente. Occorre andare al cuore del messaggio che Gesù ci ha lasciato, al cuore del Vangelo, al comandamento che Gesù dice suo e nuovo: il comandamento dell’amore reciproco che impegna più di una persona. Esso, vissuto da molti, genera la fraternità universale. “È la vita della Trinità che possiamo imitare, amandoci fra di noi. Allora quella vita non sarà più vissuta soltanto nell’interiorità della singola persona, ma diventerà liberamente vita dell’intera famiglia umana. “La nostra esperienza di questi decenni ci dice che il mettere questa logica a base della vita personale e sociale, porta un notevole rinnovamento nei più vari ambiti del vivere umano. Il Concilio Vaticano II infatti insegna che il comandamento nuovo della carità non è soltanto “la legge fondamentale dell’umana perfezione”, ma anche della trasformazione del mondo”. E ciò si è verificato da noi in parecchi campi: quello politico, economico, culturale, artistico, della medicina, dell’educazione, delle comunicazioni sociali, ecc. “È sempre stata nostra convinzione che, se il rapporto fra i cristiani è il mutuo amore, il rapporto fra popoli cristiani non può non essere anch’esso il mutuo amore. Il Vangelo chiama, infatti, ogni popolo ad oltrepassare il proprio confine e a guardare al di là. Anzi spinge ad amare la patria altrui come la propria. “È nostra esperienza che in un clima d’amore scambievole, si gode di una luce che guida alla verità sempre più piena, dà capacità di novità, e informa un dialogo con tutti, rispettoso della diversità. E tutto questo è destinato a diventare patrimonio della famiglia umana. “Il paradigma dell’unità, se attuato, appare un’enorme risorsa per la globalizzazione oggi in atto, poiché contiene in sé il germe di ogni forma di integrazione tra i popoli e il metodo per raggiungerla: l’amore scambievole. La conseguenza è il rifiuto di discriminazioni, di guerre, di controversie, di nazionalismi, di rivendicazioni di interessi nazionali. “Ne conseguirà l’esigenza di porre a disposizione di tutti i popoli i beni della creazione quali doni di Dio, e superare così il sottosviluppo di alcuni e l’ipersviluppo di altri: è l’idea della “comunione”, della fraternità universale in atto. “L’unità immessa nella famiglia umana porta a compimento il disegno di Dio su di essa: essere una sola cosa. In tal modo le diversità di popoli, di razze, di appartenenze, non vengono annullate, ma armonizzate in reciprocità “. BOBBA CHIARA, DONNA DI SPERANZA Tra le voci che hanno arricchito il convegno delle Acli, Luigi Bobba, giovane presidente di un’associazione con 800 mila iscritti, ha voluto non mancasse quella di Chiara Lubich. Presidente Bobba, quale la ragione dell’invito a Chiara Lubich? “Questo nostro convegno ha come titolo Vivere la speranza nella società globale del rischio, vivere la speranza cristiana, la speranza come virtù teologale. E pensando alla speranza, non poteva non venirmi in mente una donna di speranza, una donna che incarna questa virtù. L’invito rivolto a Chiara era perciò un modo di far sentire anche a tutti gli aclisti questa speranza che lei vive nella sua vocazione. “Poi, ho pensato a Chiara perché il lavoro per l’unità tra i cristiani e di dialogo con le grandi religioni svolto in tutto il mondo dal Movimento dei focolari, con quella capacità di interpretare, di accogliere, di entrare in relazione con l’altro, mi sembrava fosse un’anticipazione di quello che chiamiamo un mondo più interdipendente, più capace di coesistere, di convivere. L’esperienza dei Focolari come anticipazione di una possibile unità della famiglia umana. “E terzo, perché Chiara non si è limitata alle parole ma, attraverso il Movimento, ha messo in campo tante opere che indicano dei segni di speranza. E questi segni li possono vedere tutti, credenti e non credenti. E, attraverso tali segni, forse questa “virtù bambina” – come Charles Peguy chiamava la speranza – può essere quella che ci fa vedere, che ci fa sognare il mondo di domani”. Pietro Toscani

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