Fu vera gloria?

Nelle stampe popolari dell’Italia che si è appena fatta, cioè dopo il 1870, il quartetto dei padri – Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Cavour – li vede a braccetto, in fraterna compagnia. Lui, poi, Giuseppe Garibaldi di Nizza, è uno dei santi laici più popolari d’Italia, anzi del mondo, se è vero che ancor oggi in alcune case dell’Argentina si accende un lumino sotto la sua immagine. È un fatto che il marinaio nizzardo, basso e forte, occhi azzurri e capelli biondo-rossicci, ardente e coraggioso, non ha faticato a trovar posto nell’immaginario collettivo come l’incarnazione dell’eroe senza alcuna bandiera che non fosse quella della libertà. Romantico fino all’osso, parente di un altro eroe, diversissimo ma con la stessa carica ideale, lord Byron an dato a morire per l’indipendenza greca a Missolungi. Certo, oggi i giovani europei non sembrano disposti spesso a combattere per un ideale, visto che la società debole in cui si vive tende a non far né pensare né quindi volare. Il che non accadeva certo quando sia Mazzini che Garibaldi riuscivano con la forza del messaggio o delle armi a suscitare entusiasmi frenetici tali da raccogliere, almeno il secondo, un vastissimo consenso popolare. Ma cosa ha fatto di Garibaldi un eroe e un mito, una figura leggendaria di cui tante ideologie – quella dell’era fascista compresa – hanno approfittato, facendolo loro, proprio lui che in fondo era di tutti e di nessuno? La vicenda umana non è complessa. Un ragazzo ligure che come d’uso s’imbarca, viaggia per gli oceani, impara a sue spese ad affrontare ogni disagio con una dose innata di coraggio e di generosità verso gli altri, e si nutre di uno spirito idealista e libertario che lo porta sempre dalla parte degli oppressi. Così, tra il 1836 e il 1848 è in Sudamerica: lavora, combatte per il Brasile e l’Uruguay, creandosi la fama meritata di guerriero audace, di stratega astuto che sa combattere con ogni tipo d’arma a piedi come a cavallo. Impara uno stile bellico basato sulla rapidità degli spostamenti, lo spirito combattivo e l’audacia delle piccole formazioni guidate contro truppe più numerose e meglio armate. Fa anche tante altre cose, come il corsaro, il mercante, s’innamora della focosa Anita che porterà poi con sé in Italia. Sotto questo punto di vista, l’Eroe sarà sempre un passionale, genererà figli anche in tarda età. Soprattutto apprende una verità, che gli servirà quando si troverà in mezzo alla situazione italiana e ai suoi risvolti politici e diplomatici verso cui non prova simpatia: la disunità fra coloro che combattono per la stessa causa è pericolosa per la causa stessa, perché allora saranno le potenze stra- niere a decidere il futuro di un Paese. Se ne accorge durante l’assedio di Montevideo, alla vigilia del suo rientro in Italia. Quando ci arriva è il fatidico 1848, l’anno delle rivoluzioni. Decenni di freno alle aspirazioni nazionali indipendentistiche hanno fatto esplodere una ribellione generalizzata in Europa, di cui ovviamente alcune potenze – come l’Inghilterra – sanno approfittare. Garibaldi non sta fermo. Ex mazziniano e comunque nutrito di ideali di unità italiana accorre durante i moti che segnano la nascita della Repubblica romana da dove è fuggito il papa Pio IX. Scrittori e artisti celebreranno con esplosiva retorica le imprese di quei mesi, destinate, per il momento, al fallimento, perché lo Stato pontificio ritorna al suo sovrano, grazie all’appoggio francese e austriaco. Una decina d’anni dopo e l’Eroe compie l’impresa per cui diventa un mito, l’Impresa dei Mille che, guidati da lui, riescono a liberare la Sicilia e il meridione dai Borboni. Per realizzare l’unità d’Italia? In realtà egli consegna le sue conquiste ai Savoia, non perché sia un fervente monarchico – nel cuore è un repubblicano – ma perché si accorge che la ambiziosa piccola dinastia forse è la sola capace di condurre il processo di unificazione nazionale, ben più che l’attività di un Mazzini che, per quanto carica di ideali che suggestionavano i giovani, pure presentava risvolti sanguinari sconcertanti e certo sgraditi al concerto delle potenze europee. Emi- nenza grigia di questi anni è Cavour che, nonostante l’agiografia nazionale, è una bestia nera per il Generale. I due infatti non sono fatti per intendersi. Alla freddezza diplomatica del piemontese (legato alla massoneria inglese, come anche l’Eroe) non corrisponde il fare libero, leale e fuori schema di un Garibaldi che finisce a fare l’agricoltore a Caprera. Meritandosi la fama di un moderno Cincinnato, distaccato dagli onori, premiato con un dorato esilio in un’isola e con i suoi volontari a stento introdotti nelle file dell’esercito regio. Cavour infatti usa l’arma del doppio gioco nel rapporto col Generale (lo fa con tutti, dal suo re al papa), con un machiavellismo sconcertante.Ma Garibaldi è un irrequieto. Così per accelerare la presa di Roma prende ancora le armi, ma questa volta sarà bloccato dall’esercito regio. Finisce per diven-tare una icona nazionale, scrive pessimi romanzi anticlericali – come Clelia, altra cosa dallo stile del pur venerato Manzoni – e finisce carico di gloria e di acciacchi nella sua isola. Dei quattro personaggi dell’unità d’Italia, resta il più popolare e il più simpatico, forse il più onesto. Non c’è piazza o via del Belpaese che non porti il suo nome o non ne veda il ritratto corrucciato, con le fattezze da biondo Nazareno che fu venerato religiosamente, e che del resto possedeva un sua religione senza dogmi – fu crudele verso Pio IX – ma ricca di solidarietà sociale. Per decenni si sono scritti versi e canzoni Garibaldi fu ferito/ fu ferito in Aspromonte… recita una ancora diffusa, riprodotte immagini di ogni tipo, si è vista in lui la figura del condottiero generoso (deliziosi e scaltri tantifioretti sulla sua bontà d’animo) che dà la sua spada e la vita per la Nazione. Vera gloria? Svanita la retorica nazionalistica – per fortuna – l’Eroe sotto alcuni aspetti appare poco eroico: episodi di inutile crudeltà, rancori pesanti, interventi inopportuni e dannosi, un certo culto di sé stesso, ne appannano la figura e l’azione. Anche la leggenda dei Mille appare molto leggenda in realtà, dato che l’appoggio inglese fu perdurante e insostituibile… Il tempo ridimensiona i miti, fin troppo, nei nostri anni così disincantati. Pure, per quanto decurtata dall’alone canonizzatore, la figura di Garibaldi resta sotto certi aspetti con una sua nobiltà. L’ideale dell’unità nazionale, per il quale egli indubbiamente ha lottato nei due mondi è forse il lascito più autentico e il suo lato da riscoprire tuttora. Insieme a quel gusto dell’avventura, del rischio, al sentimento di dare la vita per una causa che si crede giusta: valori non indifferenti. Ben oltre le celebrazioni governative ufficiali, bolse, lontane dal vissuto comune, forse spetta alla scuola far riscoprire alla nuove generazioni nella sua giusta luce un romantico, certamente, ma anche un uomo pieno di coraggio e di fiducia nella vita. BRESCIA ONORA L’EROE La Collezione Tronca, ricca di stampe, foto, sculture di Garibaldi e dei garibaldini, in mostra al Museo di santa Giulia fino allo scorso 8/7 (catalogo Grafo) è stata una manifestazione di pregio per il valore dei cimeli, la pregnanza dei saggi raccolti nel catalogo, l’equilibrio nella rivisitazione storica del Generale.

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