Fratellini dispersi nella giungla. Secondo gli indigeni, «la selva li ha protetti»

Quattro fratellini indigeni, illesi dopo l’incidente aereo nel quale è morta la madre, sono sopravvissuti 40 giorni da soli nella selva amazzonica. Fondamentale per il felice ritrovamento lo scambio di saperi tra militari e indigeni
fratellini

«Nella selva piove tutto il tempo. L’umidità è altissima e costante. Ci sono alberi molto grandi e alti, e la luce entra poco. Si sentono molte voci, suoni, rumori. Dopo la prima nottata ci siamo svegliati coperti di zecche. Un’altra volta, di termiti. Alcuni soldati lo chiamano “inferno verde”, e li capisco». Questa è l’Amazzonia secondo Fabián Mulcue, leader indigena che condotto una delle squadre di ricerca. Un mare verde inospitale, sconfinato, abitato solo lungo i corsi d’acqua. È in una zona inesplorata che il 1° maggio è precipitato per un’avaria il Cessna 206 – rinvenuto solo il 15 – sul quale viaggiavano quattro fratellini, Lesly (13 anni) Soleiny (9), Tien (5, l’unico maschietto) e Cristin (1) insieme alla mamma, al pilota e al copilota. Dovevano raggiungere il papà, trasferitosi a San José del Guaviare, che con sacrificio aveva messo insieme il denaro per il viaggio, possibile solo per via aerea.

Le ricerche, coordinate dal governo, hanno coinvolto 150 militari e un’ottantina di membri della Guardia Indigena di varie regioni. Le ipotesi erano tre: la morte dei minori nella selva, la cattura da parte di qualche gruppo guerrigliero o di indigeni nomadi non contattati, o che si stessero muovendo per cercare acqua e cibo. Il ritrovamento via via di un pannolino, di un biberon, di resti di frutta morsa e frammenti di metallo incoraggiavano la speranza.

Gli elicotteri con rilevatori termici diffondevano una registrazione con la voce della nonna che chiedeva che restassero fermi e di tanto in tanto rilasciavano kit con siero idratante e alimenti. Gli uomini sul terreno, aiutati da cani, battevano a tappeto la fitta vegetazione, ma dovevano fermarsi quando pioveva (l’intensità dei quotidiani acquazzoni amazzonici, che possono durare varie ore, rende impossibile la vista e il movimento). Hanno camminato complessivamente circa 1.250 km. Ma i bambini sono apparsi a solo 5 km dai resti del Cessna. In un luogo dov’erano già passati. Le brevi parole di Lesly al nonno hanno spiegato il mistero: i bambini scappavano dai soccorritori, si nascondevano. Ne avevano paura. Una volta lei tappò la bocca del bebè perché non lo sentissero.

«Una mattina, alle 7, cominciammo a perlustrare e sentimmo il pianto di un bambino – ha raccontato Mulcue alla BBC –. Cercammo di circondare il punto da dove proveniva il suono. Trovammo resti di germogli di palma che avevano mangiato e foglie con le quali avevano bevuto acqua. Ma cominciò a piovere, e quando piove nella foresta non si vede nulla, e dovemmo fermarci», racconta Mulcue.

A un certo punto li trovò Wilson, un pastore belga dei soccorritori. Rimase con loro alcuni giorni, e poi si perse (lo si sta ancora cercando). Secondo i militari, voleva avvisare i soccorritori del ritrovamento. Lesly, dall’ospedale, gli ha dedicato un disegno.

Poi forse ascoltarono la voce della nonna… Il fatto è che, quando li hanno trovati, stavano riposando in una radura («non potevo più camminare», ha ammesso Lesly).

Come hanno potuto sopravvivere a giaguari, serpenti, insetti e piante velenose per così tanto tempo? Di frutta, semi, bacche, larve e insetti ce n’era in abbondanza, ma non tutto è commestibile…

Oggi, mentre i fratellini si recuperano dalla denutrizione e disidratazione in un ospedale militare di Bogotà, apprendiamo dal nonno, Narciso Mucutuy, e da altri indigeni conoscitori della selva, come sono andate le cose. La protagonista è stata proprio Lesly, la maggiore. «Quando vide che la mamma era morta, vide che i piedini della sorellina che aveva in braccio si muovevano, e la prese con sé». Cercò quanto poteva servire dalla valigia e insieme ai fratelli, contusi ma vivi, fece un riparo con una tela e dei rami appena fuori dall’aereo, dove attesero soccorsi per alcuni giorni. Si cibarono dei 3 kg della farina di manioca che trasportavano. Poi dovettero cercare cibo ed acqua attorno a loro, ma ebbero cura di lasciare tracce del loro passaggio, come il biberon, sperando che qualcuno le trovasse.

Secondo il nonno, anche se erano soli e non avevano più la loro mamma, non hanno mai temuto la selva. La conoscevano. Per Alex Rufino, giovane professore universitario e fotografo indigeno, nella foresta i bambini erano vulnerabili, ma erano in sintonia con la selva, che li ha protetti. In un certo senso, non si erano persi. «Lo erano nel senso che non avevano trovato la loro famiglia e non sapevano dove si trovavano, ma anche no, perché erano nel loro ambiente». La pioggia, ad esempio «si può pensare che li facesse soffrire, ma in realtà li puliva, li proteggeva. E impediva che li trovassero. Perché trovarli, in un certo senso, è rompere il corso naturale della selva». Per questo, non saranno al sicuro finché uno sciamano non compirà per loro il rito che li riconcili con gli spiriti.

Per la loro sopravvivenza in Amazzonia, sono state chiave le conoscenze ricevute osservando i loro genitori. «Imparano che cosa può servire e che cosa no. Ogni albero, ogni pianta, ogni animale, indica dove siamo, che cosa è disponibile e quali sono le minacce. E i bambini lo sanno interpretare», ha spiegato Rufino. Il mico, ad esempio (un tipo di scimmia) si alimenta in modo simile agli umani, e può servire da guida. Inoltre, emette suoni di allarme se vede un boa o si avvicina un giaguaro.

Ad ogni modo per gli indigeni la selva è un’entità viva. Gli si chiede permesso per entrare, con un rito. «Altrimenti ci può essere pericolo per la salute o la sicurezza».

«Ogni essere vivente può darti un insegnamento, una medicina, cibo o acqua. Per esempio, gli alberi ti proteggono quando dormi: sono il grande antenato, il grande protettore. Ti riparano, ti abbracciano». Anche se occorre conoscerli. «Senz’altro i bambini hanno trovato molte foglie concave con acqua e piccoli ruscelli. Ma non è detto che ci si possa bere. Ci sono foglie che purificano e altre velenose, che occorre prendere e lavare in un certo modo prima di utilizzarle per bere». Probabilmente hanno trovato cespugli coi quali pulirsi i piedi (che avevano avvolto in panni) e proteggerli dal morso dei serpenti.

Con una grande forza di spirito, Lesly ha così mantenuto viva lei e i suoi fratellini.

Per Alex Rufino i fratellini non dimenticheranno mai ciò che hanno imparato in questi 40 giorni.

Secondo lui, l’incidente e le ricerche sono state anche un’opportunità per dirigere l’attenzione alla vita degli indigeni in Amazzonia, minacciati oggi dallo sfruttamento delle risorse naturali e da gruppi guerriglieri e paramilitari ancora attivi. Mamma e figli stavano per riunirsi col padre che era fuggito dalle minacce di un gruppo armato.

Ma è stata anche un’opportunità per constatare ciò che accade quando dalla diversità nasce la collaborazione e lo scambio dei saperi e si vincono i pregiudizi. Mucui si è reso conto che lavorare coi militari è stato molto arricchente. Che in fondo sono pochi coloro che credono che le guardie indigene siano terroristi. «I soldati ci dicevano che avevano detto loro che la Guardia era la spina dorsale della guerriglia, e invece condividere lavoro, pericoli, malattie» (alcune decine di soccorritori hanno dovuto desistere per ferite o malattie), «parlare e mangiare con noi, era stato qualcosa di unico». Oltre ad imparare gli uni dagli altri (tecnologia e saperi dell’ Amazzonia) si sono resi conto della missione umanitaria che è a loro comune, e questo darà impulso alla collaborazione tra Forza Aerea, Esercito, governo e Guardie Indigene.

«L’insegnamento è che della selva occorre prendersi cura. Ed è responsabilità di tutti». E speriamo che la gioia collettiva per queste piccole 4 vite ritrovate si traduca in nuove possibilità di una vita in pace per i popoli amazzonici.

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