Francesco e i poveri cristi nei lager in Libia

Papa Francesco ha denunciato anche in diretta televisiva lo scandalo dei lager per i migranti in Libia. L’appello della società civile per revocare il memorandum Italia Libia del 2017
Migrants (AP Photo/Renata Brito)

È vero che in Libia ci sono dei lager dove le persone migranti subiscono atroci violazioni? E allora perché si resta inerti? Nell’intervista televisiva del 6 febbraio su rai tre Francesco è stato, come si dice a Roma, “papale, papale”, cioè senza reticenze o mezzi termini, nel denunciare lo scandalo: «Quello che si fa con i migranti è criminale».

In altri tempi si sarebbe gridato all’ingerenza vaticana sulla politica italiana dato che quei campi di detenzione sono legati a doppio filo con il memorandum Italia Libia siglato il 2 febbraio del 2017 dall’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni per contenere il flusso di persone in arrivo in Italia attraverso il Mar Mediterraneo. Un atto necessario secondo il ministro degli Interni del tempo, Marco Minniti, per contrastare «il rischio di tenuta democratica» del Paese.

Il 2 febbraio 2022, a cinque anni esatti dalla sigla di quell’accordo, un documentatissimo appello di diverse associazioni della società civile internazionale ha messo in evidenza che «il blocco delle partenze determinato dall’attuazione del Memorandum attraverso gli ingenti finanziamenti garantiti dall’Italia alle autorità libiche, si è rivelato un fattore che agevola la strutturazione di modelli di sfruttamento, riduzione in schiavitù e violenze, definiti come crimini contro l’umanità dalla Missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite».

L’appello è firmato anche dalla Fondazione Migrantes espressione della Cei (Conferenza episcopale italiana). Come è noto infatti il quotidiano Avvenire, sempre della Cei, è in prima fila nel denunciare le gravi violazioni subite dalle persone migranti in Libia e non solo, mentre Mattia Ferrari è un giovane prete della diocesi di Bologna imbarcato sulle navi della ong Mediterranea impegnata nel salvataggio dei migranti in mare. Le imbarcazioni delle ong attive in questa attività umanitaria sono considerate, per una certa pubblicistica, un fattore attrattivo delle migrazioni via mare mentre il finanziamento della Guardia costiera libica serve proprio a intercettare le partenze da quel Paese che è ancora nel pieno del caos dopo il conflitto del 2011.

Come riporta Francesca Mannocchi su La Stampa «solo l’Italia dal 2017 ha destinato 33 milioni di euro a supporto della Guardia costiera libica. Dal Fondo fiduciario Ue destinato all’Africa, in sette anni, ne sono arrivati 455, una parte cospicua finita a finanziare la gestione militare delle frontiere. Soldi stanziati per finanziare l’esternalizzazione dei confini, transitati in Libia e finiti nelle tasche di chi quel fenomeno migratorio lo gestiva prima e continua a gestirlo ora».

Nell’appello del 2 febbraio le associazioni riportano i risultati della «missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite» da cui risulta che le «violazioni non sono episodiche, ma si collocano all’interno di un modello operativo – da alcuni definito come un vero e proprio modello di business – costituito dai seguenti momenti:

I)       l’intercettazione in mare da parte della cd. Guardia costiera libica, spesso caratterizzata da manovre e modalità estremamente rischiose;

II)      la riconduzione in Libia delle persone migranti e la detenzione nei centri gestiti dal Directorate for Combating Illegal Migration (DCIM) del Ministero dell’Interno o la vendita a gruppi criminali;

III)     la sottoposizione a torture e maltrattamenti finalizzata all’estorsione di denaro o a diverse modalità di sfruttamento ed “estrazione di profitto” quali il lavoro forzato, la prostituzione coatta, la tortura ed il rapimento ai fini del riscatto».

In tale contesto, purtroppo, – continua l’appello – anche l’azione delle organizzazioni internazionali presenti in quell’area «non rappresenta uno strumento sufficiente a garantire l’effettivo accesso ai diritti e alla protezione internazionale in maniera ampia e generalizzata per le persone migranti e richiedenti asilo bloccate in Libia».

Negli ultimi mesi è comunque arrivata la notizia della costituzione di un gruppo organizzato di migranti in un presidio che si è denominato “Refugees in Libya” che ha chiesto protezione internazionale.   Un tentativo represso violentemente come riportato da don Ferrari: «I migranti che vi erano raccolti sono stati catturati dalle forze del Dipartimento per il Controllo dell’Immigrazione illegale del governo libico, i loro accampamenti sono stati distrutti, le persone deportate nella prigione di Ain Zara, restituite alle torture e agli stupri, e quelle sfuggite ricercate dalle milizie e minacciate di morte».

Sono testimonianze che non possono essere ignorate o coperte dalla evidente complessità dell’importante lavoro diplomatico in una nazione attraversata da un conflitto armato con la presenza militare di altri Paesi.

Resta, quindi, aperta la domanda iniziale. Se esistono dei lager in Libia finanziati dall’Italia e dalla Ue, come documentato da missioni Onu e denunce della società civile, si può restare indifferenti? Pur con la copertura mediatica più estesa il papa che ascolta questo grido di un’umanità sommersa e denuncia lo scandalo delle guerre è destinato a restare una voce che invoca nel deserto?

Il problema non è solo conoscere (quante volte si dice “ma noi queste cose non le sappiamo”?) ma compiere il passaggio decisivo dalla conoscenza all’impegno per cambiare uno stato di ingiustizia intollerabile. Senza nascondersi dietro la responsabilità dei politici.

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