Foto come “varchi nelle coscienze”

Siciliana di Ragusa, Franca Schininà è una professionista sensibile e affermata, collaboratrice di giornali e periodici vari, dotata di una carica vitale coinvolgente. Dai dimenticati del mondo ai disadattati degli ospedali psichiatrici, ai popoli che nei deserti e nelle foreste lottano quotidianamente per la sopravvivenza, questa instancabile giramondo sa accostarsi con rispetto e amore all’uomo in condizioni spesso estreme. Ma non si limita a testimoniare i valori della vita e i diritti della creatura umana con immagini che poi confluiscono in libri e mostre di intenso significato. Questa artista dello scatto (che è anche una nostra affezionata lettrice) è impegnata a promuovere e sostenere, assieme a volontari e missionari, numerosi progetti di solidarietà. Quando e come ha scoperto questa vocazione alla fotografia? Verso i 35 anni, insoddisfatta di fare la signora bene, mi sono chiesta cosa ci stavo a fare su questa terra. Sarebbe stato estremamente triste trovarmi, alla fine della vita, seduta sul bordo estremo di una panchina vuota. Con l’urgenza di esprimere il mio mondo interiore, avendo ricevuto in regalo una macchina fotografica, ho cominciato a guardarmi intorno e a scattare foto. L’inizio è stato dunque casuale: se non attraverso la fotografia, probabilmente avrei cercato di esprimere questa inquietudine esistenziale scrivendo o dipingendo… Della realtà intorno però mi interessava un aspetto in particolare. Infatti, andando in giro per il mondo, più di tutto rimanevo scossa e indignata dalle sofferenze e dalle ingiustizie in cui mi imbattevo…. Cosa c’è all’origine di questo interesse? Di sicuro l’educazione ricevuta da mia madre, che mi ha inculcato il senso di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. Fin da piccolissima, quando per strada vedevo un povero, con logica infantile concludevo: se ognuno di noi gli desse una monetina non avrebbe più bisogno di tendere la mano. Anche oggi sono convinta che se tutti fossimo capaci di condividere, non ci sarebbero più poveri. E soprattutto il trauma della perdita di mio padre morto a 27 anni, appena tre giorni prima che io nascessi: al vuoto e alla solitudine sperimentati nell’infanzia debbo questa particolare sensibilità alla sofferenza altrui, qualsiasi essa sia. Mostrare l’uomo all’uomo per farlo riflettere: è questo che lei si propone con la sua fotografia impegnata? Sì, soprattutto nell’attuale momento storico in cui, insieme ad una accresciuta attenzione verso i diritti umani, assistiamo al potere distruttivo delle società opulente a spese dei paesi più poveri, che costituiscono la porzione più vasta di umanità. E cosa si aspetta da chi guarda una sua foto? Che gli si aprano dei varchi nella coscienza. Non possiamo, noi cosiddetti popoli civili, continuare ad andare avanti egoisticamente. Per fortuna, esiste anche la sensibilità e la generosità di tanti che concretamente, a costo di sacrifici, sono capaci di rimboccarsi le maniche per gli altri. Qual è la foto a cui è più legata? Nel mio ultimo libro fotografico Sete d’Africa è quella di un bimbo etiope di forse cinque anni: vanga in spalla e tanica in mano, ci guarda interrogativo, quasi implorante. Quella mattina nel suo villaggio era festa: veniva inaugurata una canalizzazione per la quale si era lavorato a lungo, e lui, piccolo com’era, s’era attrezzato per scovare comunque quel bene prezioso che è l’acqua, non avendo quella gente mai sicurezza di niente. Nella foto esibisce una maglietta sdrucita di origine occidentale con sopra disegnato l’orsetto Winnie-pooh, di cui quel bimbo non poteva aver cognizione, mentre i nostri figli hanno le stanze piene di giochi. E il momento più difficile? Ah, ce ne sono stati parecchi! Per esempio nello Yemen, dove nel ’94 sono stata bloccata per alcuni giorni dall’improvviso scoppio di una guerra; nel Tibet quando, causa l’altitudine, ho rischiato l’edema polmonare; o l’anno scorso in Madagascar, dove ho sofferto un caldo atroce. Eppure non mi sono pentita: sono esperienze del genere che ti arricchiscono, altro che i soldi!. Lei ha scritto: Continuerò a vagare per il mondo… per chiedere perdono. Cosa intendeva dire? Secondo me noi occidentali che apparteniamo al 15 per cento di popoli fortunati dovremmo chiedere perdono a quell’85 per cento dove si muore di fame, sete e malattie pur avendo magari risorse strepitose (è il caso del Congo con le sue miniere di diamanti e d’oro), che però vanno ad arricchire un Occidente già scandalosamente ricco… ricco anche di promesse non mantenute. Ecco perché è giusto che almeno chi si rende conto di certe ingiustizie chieda perdono. Perdono per sé e per chi non lo fa. E a proposito del Congo, mi sono attivata con altri per far venire da quel paese cinque fratellini la cui mamma era stata uccisa dai militari per rappresaglia contro il padre, insegnante di pedagogia rifugiato nella mia città per motivi politici. Con l’interessamento della Caritas ragusana stiamo facendo il possibile per assisterli e col nostro affetto alleviare in qualche modo la loro terribile esperienza. È poco,ma anche con gesti così si può chiedere perdono. Quando lei fotografa un soggetto umano, qual è la sua prima preoccupazione e come si pone di fronte ad esso? Per chi fa questo mestiere, è una cosa talmente istintiva che non ci si pensa neppure. Con la mia macchina al collo io divento un tutt’uno con chi sto fotografando, non ricordo neanche di essere Franca. Infatti non ho avuto problemi neppure in quei paesi dove fotografare equivale a rubar l’anima della gente, a tal punto mi ero immedesimata in essa. Dalle sue foto traspare sempre un’attenzione alla dignità dell’uomo… È proprio questo che mi propongo. Non ho mai voluto pubblicare immagini capaci di mettere in difficoltà il soggetto scelto perché sporco, ad esempio, o coperto di mosche. Non trovo giusto né onesto approfittare di certe situazioni. Facciamo pure vedere la realtà, ma nella maniera più umana e più dignitosa possibile. D’altro canto si tratta di nostri fratelli. Sete d’Africa È l’ultima fatica fotografica di Franca Schininà, 95 foto in bianco e nero (la sua tecnica prediletta) dedicate all’Africa (Mali, Senegal e soprattutto Wolayta – Etiopia del Sud, le cui popolazioni sono da oltre trent’anni affiancate dall’opera missionaria dei cappuccini delle Marche). I proventi ricavati dalla vendita della prima edizione del libro (pp. 158, euro 35,00) sono stati devoluti alla costruzione di condotte idriche nel Wolayta, di piccole dighe a Bandiagara (Mali) e di pozzi nella missione di Marovoay (Madagascar), nonché per lo sviluppo di un’azienda agricola a Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo), a cura della Caritas diocesana di Ragusa. Con questa seconda edizione l’autrice spera di incrementare le opere iniziate e di intraprendere altri progetti di solidarietà come quello di un ambulatorio medico in Madagascar, isola sulla quale sta realizzando un suo nuovo libro fotografico. Per informazioni: HF Distribuzione CP 56 – 13100 Vercelli; tel. 0161.210727; fax 0161.214133;www.hfnet.it

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