Flash dal mondo

MEDIORIENTE, Il futuro del jihadismo dopo Aleppo e Mosul, di BRUNO CANTAMESSA; NEW YORK, Un post-it per Trump, di MADDALENA MALTESE; AFRICA, Il franco Cfa frena lo sviluppo di 16 Paesi, di ARMAND DJOUALEU; SPAGNA, Un fuso orario da riformare, di JAVIER RUBIO

MEDIORIENTE

Il futuro del jihadismo dopo Aleppo e Mosul

di BRUNO CANTAMESSA

La tragedia mediorientale

non si è chiusa con la fine dei bombardamenti su Aleppo Est, in Siria, né con l’avanzata iraqena per riprendersi Mosul. Restano sul tappeto le domande scomode sul dopo-Daesh. Mettiamo fra parentesi le cause economiche e la smaspodica ricerca di potere che hanno motivato il conflitto; sorvoliamo sul business delle armi, andiamo persino oltre il dramma di profughi, cancelliamo le spaventose conseguenze a lungo termine di questa guerra, e chiediamoci quali siano le cause profonde del jihadismo, e soprattutto come evitare che, non riconoscendole, sorgano a breve altri Daesh, Isis e gruppi simili, magari peggiori. Un’interessante analisi a riguardo è emersa durante la conferenza annuale sul terrorismo della Jamestown Foundation a Washington. A presiedere la fondazione è Michael Hayden, ex capo della Cia, che ha sottolineato i limiti dell’azione militare nei confronti del terrorismo islamista : «Se fosse dipeso solo dalla nostra capacità di uccidere le persone, tutto si sarebbe già concluso 14 anni fa durante la seconda Guerra del Golfo e invece non ne siamo usciti e non ne usciremo solo uccidendo». Per Hayden non si sono sufficientemente analizzate le ragioni che spingono tanti giovani musulmani sunniti ad unirsi a movimenti jihadisti e insurrezionali : «L’attrattiva dell’islamismo radicale perdura e i ranghi dei suoi militanti e dei suoi capi si rinnovano continuamente». La strategia della decapitazione messa in atto contro Daesh, Al-Qaeda e Boko Haram è di fatto fallita e la prova è il caos che regna nel mondo arabo, che rappresenta circa il 5% della popolazione mondiale. Ricordiamo però che metà degli atti terroristici attuati lo scorso anno ha radice in questo contesto complesso dove permangono i problemi che hanno provocato le cosiddette “primavere arabe” e cioè pessime amministrazioni pubbliche, economie allo sbando, mancanza di spazi di dialogo, disoccupazione giovanile, irresponsabilità dei governi. «Abbiamo deciso che questi problemi erano troppo difficili – ribadisce Katherine Zimmerman, di quello stesso American Enterprise Institute che aveva sostenuto teoricamente la lotta contro gli “Stati canaglia”! – e ai veri problemi abbiamo preferito la nostra strategia: trovare partner locali ed eliminare i capi con raid aerei. Così facendo, spesso abbiamo peggiorato le situazioni». Una spietata autocritica, nei fatti, di un istituto che ha avuto enormi responsabilità nelle guerre di George W. Bush e nella nascita del Daesh, assieme alla stessa Jamestown Foundation. Qualcuno ha azzardato paragoni tra la lotta al terrorismo di matrice jihadista e la guerra fredda, convinto che la vittoria sull’ideologia comunista abbia stabilito schemi esportabili ovunque. Il presidente della Jamestown Foundation ha immediatamente smentito il parallelismo perché «il comunismo non ci era estraneo, ed era una ideologia occidentale, creata a Londra da un tedesco. Ma ora non abbiamo alcuna capacità legittima per contrastare l’Islam radicale, così come stiamo facendo».

 

NEW YORK

Un post-it per Trump

di MADDALENA MALTESE

Lo shock, il disappunto o al contrario la fiducia e gli incoraggiamenti seguiti all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti hanno trovato uno spazio di espressione sulle piastrelle bianche di Union Square, una delle stazioni della metropolitana di New York. In queste settimane, le pareti si sono popolate di migliaia di post-it colorati e densi di messaggi. «Serviva ai newyorchesi, e non solo a loro, un luogo dove poter manifestare le proprie emozioni e i propri sentimenti, soprattutto a seguito dell’inattesa vittoria di Trump», spiega il suo ideatore Matthew Levee Chavez. Sui piccoli quadrati adesivi si legge: «Gli immigrati fanno l’America grande»; «Guardiamo insieme al futuro oltre le differenze»; «Prenditi cura dell’istruzione»; «Musulmani, messicani e donne non sono i nostri nemici. Noi siamo uno». L’iniziativa si è estesa anche alla fermata Atlantic di Brooklyn e ora la Società di storia americana ha deciso di conservare tutti questi foglietti come documenti che esprimono la partecipazione civile.

 

AFRICA

Il franco Cfa frena lo sviluppo di 16 Paesi

di ARMAND DJOUALEU

Il franco Cfa (Comunità finanziaria africana) è la valuta di 16 Paesi dell’Africa occidentale e centrale. Creato nel 1945 come moneta delle colonie francesi, ha subìto negli anni cambiamenti nei suoi nomi e nella sua valutazione, ma oggi è ritenuto un meccanismo obsoleto e un freno allo sviluppo delle nazioni che lo adottano perché ancora dipendente dalla Francia. La valuta infatti è ancorata alle oscillazioni dell’euro e i Paesi che la adottano, per evitare la svalutazione, sono tenuti a depositare il 50% delle loro riserve alla Banca di Francia che può insediarsi nel direttivo della Bceao (Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale) e della Beac (Banca degli Stati dell’Africa centrale), le due banche che gesticono il franco delle comunità africane, controllandone in tal modo tassi di inflazione, tassi di sconto, etc. Questa forma di neocolonialismo, ad esempio, fa in modo che se in uno dei Paesi del franco Cfa entrasse capitale straniero per un investimento pari a mille, il 65% circa andrebbe versato alla Banca centrale francese, che tra l’altro autorizza il conio delle monete. In altre parole, i Paesi africani nella zona del franco Cfa non hanno alcun controllo della loro politica monetaria e letteralmente subiscono le fluttuazioni della moneta europea, con l’aggravante che i franchi africani emessi negli Stati dell’Africa centrale non sono intercambiabili con quelli emessi dagli Stati occidentali e quindi lo sviluppo degli scambi tra le due aree è totalmente penalizzato. Questa politica monetaria compromette le economie locali, mentre favorisce gli investimenti francesi in Africa, il rimpatrio dei capitali e l’importazione dalla Francia di materie prime, e al contempo agevola la fuga dei capitali dai Paesi africani che hanno valutato in 400 miliardi di dollari il capitale fuoriuscito dai loro territori a 30 anni dall’indipendenza.

Per Kako Nubukpo, economista dell’università togolese, «una moneta deve essere al servizio della crescita e dello sviluppo di un Paese e sarà impossibile per le nazioni del franco Cfa stare al passo con le economie emergenti finché si sarà legati all’euro e si dipenderà da soldi made in France».

 

SPAGNA

Un fuso orario da riformare

di JAVIER RUBIO

Basta un’occhiata alla carta dei fusi orari nel mondo per chiedersi se l’artificioso disegno a colori imposto alle nazioni sia un bene o un male per chi li abita. Il dibattito sulla razionalizzazione degli orari sta impegnando la Spagna, che, pur rientrando nel meridiano di Greenwich, si trova a fare i conti con la scelta di uniformare le sue lancette a quelle della Germania per garantire maggiore produttività. La scelta risale al 1942, quando diversi Paesi europei decisero di adottare un’ora comune dalla frontiera tra Bielorussia e Polonia fino al confine con il Portogallo. L’anomalia spagnola è evidente poiché, quando a Barcellona, sul Mediterraneo, è notte fonda, a Vigo, nella costa atlantica, splende il sole. Da circa 10 anni è stata creata una commissione per la razionalizzazione degli orari presieduta da Nuria Chinchilla, dello Iese Business School che si batte per un tempo regolato sull’ora solare e sui ritmi naturali, al fine di garantire una vita sana, una cura adeguata della famiglia, un rendimento efficiente sul lavoro. La Catalogna conta di introdurre già nel settembre del 2018 una norma che razionalizzi gli orari per aziende e scuole.

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