Fiorenza Cedolins

Tenace, sincera, questa friulana doc – ormai fra le star della lirica – sta per debuttare nell’Arena veronese in Bohème. Una festa per noi cantanti – dice – trovarsi davanti a diecimila persone in silenzio, ma anche emozione, eccitazione pazzesca, responsabilità. Fiorenza, che canta solo ciò che le piace, è ardita: già ragazza, vince le perplessità della famiglia non ricca, per studiare canto a 19 anni – la musica ce l’ha nel sangue – e a 21 entra nel coro del Verdi di Trieste, per debuttare poi in Cavalleria al Carlo Felice di Genova. Anni di gavetta, di cui, a differenza di altri, parla volentieri: Ho affrontato vari ruoli, anche per studiare la mia voce e capire che è quella di un soprano lirico-drammatico. Ho parecchi ricordi: Cavalleria diretta da Muti a Ravenna – con la regia della Cavani, un’artista meravigliosa con cui vorrei tornare a lavorare -, i teatri di provincia venetoemiliani, interpretando Trovatore e poi un Masnadieri a Piacenza, un inaspettato trionfo. E le stagioni del Festival estivo a Spalato, per tre anni, con la guerra alle porte. Una notte mi hanno svegliata per farmi fare le valigie e rifugiarsi nelle isole, perché i serbi avevano rotto il confine e potevano arrivare a Spalato!. Ho dovuto imparare molto da me stessa – ammette – anche se due anni di studio con Roberto Benaglio (maestro di voce, ndr) sono stati una grande esperienza. Ora, ho un repertorio ampio: ciò mi aiuta sia dal lato tecnico che come soddisfazione intima, perché non amo le iperspecializzazioni, non riesco a cantare sempre le stesse opere, ho bisogno di aprire nuove strade, di sperimentare. La gioia più grande – confessa, sorridendo – è poter cantare per me e per gli altri. Certo, oggi noi cantanti siamo visti talora come pezzi da museo. Bisogna rinnovare l’opera: non snaturandola, come si fa in Germania, dove è solo dramma e non più musica oppure cadendo nel tradizionalismo, ma col giusto mezzo: rinnovare rispettando la musica. A me piace confrontare l’opera con la danza o la prosa: ci sono concetti universali che si possono attualizzare. Penso, ad esempio ad una Norma, con la regia di De Ana, fatta a Tokyo e ad Ancona, con un gusto teatrale moderno. L’opera non è un concerto in costume, esige bravi cantanti-attori!. Ma il canto per Fiorenza è solo un bel gioco o anche una vocazione? Per fare il musicista – confida – bisogna avere una molla, un tarlo, che viene da dentro, è ingovernabile: è una necessità interiore, il canto. Io l’ho sempre sentito così, se non canto o non mi esprimo attraverso l’arte, non sono felice. Per questo, Fiorenza non ama gli pseudo artisti che lo fanno per la fama i soldi o l’ambizione, ma durano poco, in un mestiere che richiede tanto sacrificio: è una vita da nomadi di lusso, la nostra. Ed ora? Mi auguro di continuare ad essere felice come adesso che ho raggiunto i miei traguardi, di aver voglia di cercare nuove strade, come persona e come artista. Di dare e avere gioia, nel contatto col pubblico, perché nella musica tutto viene costruito insieme.

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