Fine Vita: tra dialogo e pendio scivoloso

L’aspro dibattito suscitato dall’intervento di monsignor Vincenzo Paglia. La quotidiana esperienza in un hospice

I fatti sono noti, almeno per chi segue con un po’ di attenzione l’argomento. Nei giorni scorsi, mons. Vincenzo Paglia – presidente della Pontificia Accademia della Vita e presidente della Commissione Ministeriale per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria per la popolazione anziana – è intervenuto al Festival del Giornalismo di Perugia (testo integrale sulle pagine de Il Riformista) sull’ampia tematica del fine vita.

Sin dalle prime righe l’intervento approfondisce un aspetto fondamentale nella riflessione etica: il dialogo fra culture, e nella fattispecie fra “credenti” e “non-credenti”, è una sfida e può portare a sviluppi preziosi. Paglia cita per esempio il percorso di cambiamento del Magistero cattolico rispetto alla pena di morte, riconoscendo l’importanza della crescita della sensibilità civile e degli stimoli provenienti dalla laicità.

Il magistero – dice – non è un «dispensatore di pillole di verità. Tra credenti e non credenti c’è una relazione di apprendimento reciproco». Non sono posizioni nuove, e già in passato oggetto di critiche di relativismo etico.

Nella sua ampia disamina il presidente della PAV si sofferma sugli estremi di un antico paternalismo: da una parte decidere qual è “il bene” dell’altro sulla base dei propri valori senza conoscere e approfondire quelli dell’altro; dall’altra assolutizzare l’autonomia e l’autodeterminazione, arrivando ad una grave e definitiva negazione della libertà, quella libertà che nasce dall’accompagnamento e dalla condivisione di culture.

L’estremo dell’autonomia è la solitudine, in cui sono solo apparentemente libere scelte indotte da condizionamenti sociali ed economici: «In nome dell’autodeterminazione si arriva a comprimere l’esercizio effettivo della libertà, soprattutto per coloro che sono più vulnerabili».

Molto importante la distinzione fra una sofferenza “insopportabile” vissuta da chi muore e la “sofferenza insopportabile” di veder morire, da cui possono derivare scelte eticamente inaccettabili. Quante volte, purtroppo, ci viene richiesta una sedazione palliativa in pazienti che non ne hanno nessun bisogno, in quanto già rallentati dal decorso della malattia o in serena accettazione, con la spiegazione che “non ce la faccio più a vederlo così”.

Su queste basi Paglia ribadisce la convinzione che nell’avvicinarsi della morte la risposta principale sia quella dell’accompagnamento. Quasi sempre è la presenza umana, supportata dalle competenze specialistiche delle cure palliative, ad assicurare la risposta “diversa” che porta a cambiare la domanda di eutanasia.

Laicamente, a questo punto, il monsignore affronta il tema della complessità e delle criticità forse senza risposta. Perché “quasi sempre” non significa in assoluto “sempre”.

Di fronte alla sofferenza che non possa essere lenita neanche dal miglior percorso di cure palliative, alle richieste di essere liberati da una radicale solitudine del morire (situazioni rarissime, a dire il vero), gli interrogativi si fanno più stringenti. Soprattutto in una società complessa, in cui la dottrina cattolica è ormai una posizione di minoranza, per quanto sia una delle basi della nostra civiltà.

Ed è sulla conclusione che le affermazioni di Mons. Paglia hanno scatenato un “caso”, quando dice che «in questo contesto non è da escludersi che nella nostra società sia praticabile una mediazione giuridica che consenta l’assistenza al suicidio nelle condizioni precisate dalla Sentenza 242/2019 della Corte costituzionale» (sentenza di cui abbiamo già parlato su Città Nuova). Condizioni, ricordiamolo, piuttosto restrittive e di depenalizzazione di quello che rimane un reato.

Aggiunge Paglia: «La proposta di Legge approvata dalla Camera dei deputati (ma non dal Senato) andava sostanzialmente in questa linea» (affermazione, questa su cui ho già espresso i miei dubbi sempre su Città Nuova).

Come immaginabile… su queste parole si è scatenato il vespaio! A nulla è valsa una precisazione ufficiale dell’ufficio stampa della PAV (“Accademia per la Vita: Paglia ribadisce il no all’eutanasia e al suicidio assistito”) sulla differenza fra “mediazione giuridica” e “mediazione morale”. Immediate sono state le critiche piuttosto dure soprattutto da organi di stampa e editorialisti di orientamento cattolico (alcuni titoli: “Suicidio assistito: le parole di Paglia sono gravi e irragionevoli”, “Anche la mediazione giuridica apre al suicidio assistito, caro Mons. Paglia…”, “La replica di Paglia è da sabbie mobili!”).

È difficile, in un clima di questo genere, esprimere un parere definitivo. Restano però alcuni interrogativi:

  • possiamo costantemente e solo opporre dei “no” ai temi in discussione in una società sempre più complessa?
  • ha senso accettare una scelta legislativa in nome del “meno peggio”?
  • oppure il “meno peggio” altro non è che il primo gradino della rapida discesa di una “china pericolosa” in cui rapidamente tutto diventerebbe lecito? Non sarebbe la prima volta…

 

In tutto questo, condividevo con un collega palliativista di lungo corso una considerazione. In tanti anni di lavoro accanto ai malati, è stato frequentissimo che la richiesta di eutanasia e suicidio assistito “svanisse” nel percorso di cure palliative a domicilio o in hospice.

E il cambiamento di prospettiva non è mai stato determinato dal richiamo “ex cathedra” di valori assoluti o norme giuridiche. Sempre è stata la scoperta di un altro modo di esprimere e vivere fino in fondo la propria dignità, la propria libertà di scelta, la propria sacrosanta richiesta di ricevere il controllo completo dei sintomi di sofferenza fisica, psichica, sociale e spirituale.

In genere il primo passo è proprio quello di accettare una domanda “ostica”, mettersi in discussione con coraggio senza irrigidimenti sui principi, farsi compagni di viaggio lungo un sentiero mai semplice, e sempre nuovo perché nuova e irripetibile è ogni storia che quotidianamente incontriamo.

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