Filmare il vero

Roma, maggio. Alessandro D’Alatri, classe 1955, sposato, due figlie Federica e Carolina, di sette e otto anni, è un romano cordiale e aperto. D’intelligenza fresca, lucidissima: è un piacere conversare con lui. D’Alatri, lei non passa per un autore particolarmente prolifico. “Beh, io faccio fatica a fare film, anche perché non me li fanno fare: in dieci anni ne ho fatti quattro, in pratica uno ogni tre-quattro anni: l’ultimo, Casomai, dell’anno scorso, è andato bene, e ne sono contento: ma adesso guardiamo al futuro”. Scorrendo i suoi lavori, da Americano rosso” a “Senza pelle” fino appunto a “Casomai” è evidente la tematica sui giovani in crescita. “Se non si parla con i giovani, con chi si deve parlare? Del resto, trovo che sia importante parlare un linguaggio il più vasto possibile, rispetto ai temi bollenti della società. Oggi di cinema di intrattenimento ce ne abbiamo tanto. Ci arriva dall’America bell’e confezionato. Non riusciremo mai a competere con questo tipo di confezione, ahimè, perché a me piacerebbe anche farlo qualche volta un progetto così. Però, la prerogativa del nostro cinema è di far centro su certi argomenti che fanno parte delle tematiche sociali contemporanee. Coniugare in qualche modo autorialità e intrattenimento credo sia l’unica operazione possibile nel nostro paese. Anche perché il cinema d’autore tout-court la gente non lo va a vedere. Il grande cinema italiano degli anni Sessanta-Settanta, ma anche del dopoguerra, denunciava fortemente i mali della società attraverso caratteristi forti come Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman. Io devo dire che in qualche modo mi sento in progressione rispetto a queste tematiche”. Dove sta andando allora il cinema italiano? “Credo finalmente incontro al pubblico. Infatti, c’è un pubblico che s’è accorto che esisteva un cinema italiano e lo sta premiando in qualche modo. Negli ultimi dieci anni, otto milioni di persone, secondo i sondaggi, si sono sganciate dalla televisione. Certo non vanno tutti al cinema, però è un fatto che esiste un nuovo pubblico non passivo come quello costruito dalla tivù, fatto soprattutto di giovani, che, secondo me, è stanco del prodotto americano standardizzato, sta costruendo le basi perché il nostro cinema possa veramente ricrescere. Un film, si sa, costa qualche miliardo: fino a ieri, il rientro era quasi coperto dalla televisione, oggi questo viene garantito anche dalla sala, ed è un grande risultato. In più c’è una volontà di ricostruzione di una società non più come il neorealismo faceva, fisicamente, dopo le macerie della guerra: oggi si tratta di ricostruire le anime, le coscienze, di riporre l’uomo al centro della società”. Sarebbe come un ricominciare da zero. . . “L’abbrutimento in cui ci stiamo trovando oggi è pesante: la solitudine, il desiderio di comunità che si sta manifestando sono dati molto interessanti. Al di là degli aspetti politico, culturali, religiosi ecc., credo che la grande tematica sia la riaggregazione degli esseri umani. Perché una società basata solo sul profitto non può portare a risultati intelligenti: lo vediamo intorno a noi l’egoismo, la mancanza di solidarietà stanno determinando una mutazione genetica sociale. Perciò mi sembra – mi riferisco alle ultime cinque, sei stagioni – che il nostro cinema stia andando nella direzione di cui parlavo prima, anche da parte di autori partiti da esperienze diversificate, per esempio la commedia o il cinema d’autore”. In questo panorama, lei come si situa? “Vorrei essere uno che fa cinema, registrando le cose che gli stanno intorno. Non credo si possa più parlare di neo-realismo nel cinema attuale, perché oggi la realtà raccontata in tivù – penso ai reportage dall’Iraq – ha superato ogni cinematografia. Certo, credo esista anche una sottorealtà non raccontata che è però il vissuto degli esseri umani, fatto di conflitti e di stimoli. Questa sottorealtà è, per me, il compito del cinema. Se i registi riescono a rappresentarla, attraverso il loro filtro poetico, narrativo, umoristico, possono far diventare tutto questo anche spazio di intrattenimento, senza appesantire”. C’è sempre un fondo ottimistico nei suoi film, un finale, diciamo così, “aperto”. “Io sono un ottimista nella vita, anche se ogni tanto mi domando come faccio ad esserlo. Credo che i conflitti creino in noi dei problemi delle “crisi”, un termine greco che equivale a crescita. Uno dovrebbe far tesoro delle esperienze della vita, anche di quelle negative, che così si rivelano occasioni di crescita”. Nel ’98 è apparso un suo film controverso, “mistico”, “I giardini dell’Eden”. Poco presente in sala, è però molto vivo nei circoli cinematografici, anche cattolici. “È un film che rifarei, di cui sono orgoglioso. Voleva dire delle cose, ma purtroppo da noi esiste spesso una classe intellettuale che ha dei pre- giudizi, una delle cose che mi fanno più paura. E il film è vittima dei pregiudizi, perché nel pubblico, quelle poche volte che gli è stato consegnato, i risultati ci sono stati. C’è stata la volontà di non parlare di quell’argomento (gli anni “privati” di Cristo, ndr) – e questa è la vera censura – anche perché non avevo trovato elementi scandalistici. Ma è un film frutto di quattro anni di studio, che mi ha dato molto. Infatti, a quarant’anni, con tutta la formazione di una società come la nostra a matrice cattolica, non avevo mai letto le Scritture. Quando lo chiedo in giro, vedo che il 99 per cento della gente non l’ha mai fatto” Io ho scoperto un mondo che non conoscevo, dove ci sono tutti gli aspetti della vita, è la radice più profonda che noi abbiamo. “Nei giorni passati, guardando i servizi sull’Iraq, io vedevo anche Babilonia, Ninive, le storie di quei luoghi, e non giudicavo più quella gente come dei beduini ignoranti, ma come persone che hanno visto gli albori della civiltà sul pianeta. Non parlo in termini spirituali, perché la spiritualità credo sia un fatto personale col quale ci fai i conti per tutta la vita e solo alla fine puoi dire com’è andata, ma “durante” non se ne può parlare, perché è una cosa così dentro di te” Io sono uno pieno di dubbi e in questo mi sento vivo, un essere umano, mi pongo delle domande. Uno che si pone delle domande affronta allora il percorso della fede non ricevuta per grazia, ma cerca di conquistarsela, se non altro”. Nei suoi film si nota, per quanto velato, un senso di spiritualità. “Beh, la spiritualità fa parte della società. Purtroppo oggi s’è alzata una barriera di vergogna: un giovane che dica se Dio esiste o no viene emarginato, è più facile dire non c’è, e buonanotte. Cedo che gli aspetti della spiritualità vadano cercati nel quotidiano, basta leggere le parabole dei vangeli: non sono alchimie alte, ma cose pratiche, piene di insegnamenti. Neanche un film allora può mantenere un’assenza di spiritualità: penso ad un lavoro tacciato di antireligiosità, L’ora di religione (di Marco Bellocchio, ndr), che io invece vedo come un film mistico: quella bestemmia è una preghiera, un grido verso l’alto. “Fra l’altro, in questi giorni vado a Genova dove c’è mio suocero in coma, e vedo persone che mai si sarebbero affacciate ai problemi dello spirito, ma di fronte al dolore, riguardano in alto, risollevano il pensiero. Questo per dire che la spiritualità permea la società”. Qui con noi c’è un giovane attore. Cosa consiglierebbe a chi come lui è all’inizio della carriera? “Dovrebbe (l’attore è Fabrizio Bucci, ndr) seguire quello che il suo cuore gli consiglia di fare. Vedo attori che fanno anche cose ignobili pur di lavorare, ma che ne penalizzano la carriera, perciò credo che dovrebbe esser fedele a sé stesso, al proprio talento e fare scelte giuste, adeguate. Anche se è difficile essere rigorosi come attori, perché le regole del mercato possono condizionare. L’importante è che uno, per esempio se viene dal teatro, mantenga un contatto con l'”arte dell’attore”, quella in cui il montaggio te lo fa il pubblico ogni sera. Per i registi è diverso: per me fare un film è un grosso sacrificio, due tre anni di vita, in Italia noi registi di cinema non abbiamo nemmeno i diritti d’autore. . .”. All’inizio si parlava di nuovi progetti. Cosa c’è in cantiere? “Da dieci anni porto avanti l’idea di un film d’animazione per bambini, naturalmente con le tecnologie digitali. Ora, sono occupato in un progetto di film, si chiamerà La febbre: affronta il tema di un giovane che si affaccia al mondo del lavoro, dove c’è la quantità più che la qualità, col risultato di una società infelice, senza amore. Sto ancora scrivendo, non ho iniziato a girare”. D’Alatri, lei è un cineasta molto apprezzato. Quale è il regalo migliore che si aspetta? “Guardi, per me la cosa più bella è non partecipare mai ai festival, perché il festival migliore è quello del pubblico: è l’unico che vorrei vincere per tutta la vita”.

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