Figlio, amico mio

«Quando mio figlio ha una partita, lo accompagno e faccio un tifo sfegatato. Mi piace sentirmi suo amico, mi fa sentire giovane. Qualcuno mi prende in giro, ma io penso che così possiamo avere più confidenza. Siete d’accordo?». Stefano - Roma
Ragazzi

Nella ricerca di vicinanza, non vedo solo il bisogno di sentirsi giovani, nonostante l’evidente cambiamento che i figli stessi nel loro crescere ci ricordano implacabilmente, ma anche il desiderio di comunicare. E questo può aiutare la funzione educativa, perché costruisce ponti e rinnova il linguaggio tra generazioni, in rapidissima evoluzione.

È molto utile, purché non annulli la necessaria e sana “distanza”, che permette ai genitori di “porgere la mano” ai figli quando questi, inevitabilmente, nello sforzo di conquista delle loro nuove mete, mettono il piede in qualche buca e hanno bisogno di essere sostenuti per uscirne.

Ci sono padri che si fanno chiamare per nome e madri che si scambiano vestiti con le figlie poco più che adolescenti; altri genitori che, come me, si fanno spiegare dai figli come si usano le ultime diavolerie della tecnica. È un comportamento diffuso, che rivela luci e ombre del nostro essere genitori oggi.

È necessario rivalutare il valore positivo dell’autorevolezza dei genitori. Anche quando ci contestano, i figli sono lì a vedere come ce la caveremo di fronte ai loro perché, alle loro sfide; hanno bisogno di imparare da noi ad usare la bussola, anche se la loro rotta è diversa dalla nostra. Di amicizie ne possono avere tante, che vanno e vengono, ma «di mamma ce n’è una sola». E anche di papà.

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