Figlia di Galileo. E suora

Galileo è probabilmente uno dei personaggi storici più conosciuti nel mondo, sia per il suo straordinario contributo alla nascita della scienza moderna, sia per la condanna della sua opera, a quel tempo sospetta di eresia, da parte dei cardinali inquisitori della Chiesa cattolica. Mente geniale e inquieta, Galileo fu allo stesso tempo capace uomo di laboratorio, scopritore delle nuove leggi della meccanica, padre del metodo sperimentale, osservatore dei primi satelliti di Giove, teorico innovatore e filosofo della scienza capace di comprendere il mondo tramite il linguaggio matematico: in una parola scienziato fecondo, ricercatore di verità e bellezza. Subito dopo aver scoperto con il telescopio l’esistenza dei quattro satelliti di Giove scriveva: “Così infinitamente rendo grazie a Dio che si sia compiaciuto di far me solo primo osservatore di cosa così ammiranda, e tenuta a tutti i secoli occulta”. Mi ha sempre affascinato, in Galileo, accanto all’aspetto scientifico, il suo essere tenace uomo di fede, che nonostante le traversie e le umiliazioni impostegli dalla “madre” chiesa, non ha mai smesso di essere suo “figlio”. Ha cercato anzi fino all’ultimo di evitare alla chiesa l’errore della condanna delle tesi copernicane e si è infine piegato, obbedendo alla richiesta di rinnegare le sue idee pubblicamente. La vita di Galileo viene ora illuminata di nuova luce da un libro (1) che ci fa conoscere un personaggio essenziale della sua vicenda umana, scientifica e spirituale: la figlia. Virginia, figlia primogenita dello scienziato, “donna di esquisito ingegno, singolare bontà e a me affezionatissima “, nasce nell’afoso agosto del 1600 e, in quanto figlia illegittima, a tredici anni entra nel monastero di San Matteo ad Arcetri, vicino Firenze, col nome di suor Maria Celeste. Inizia così una vita di povertà e clausura che sarebbe rimasta per noi completamente nascosta se non fosse per le frequentissime lettere che padre e figlia cominciano a scambiarsi con regolarità, fino alla morte. Le lettere paterne sono andate perdute, mentre quelle scritte da Maria Celeste, conservate da Galileo, che a volte vi annotava sul retro appunti e formule, sono arrivate fino a noi, raro esempio di intelligenza, fede e amore. Nei momenti di gloria e soddisfazioni, come in quelli di sconforto e tribolazioni, fino ai giorni della prigionia, le missive della figlia sono state per Galileo sostegno, alimento spirituale, affetto filiale, fiducia appassionata nelle sue capacità scientifiche, ma soprattutto aiuto per vivere senza conflitti il proprio essere scienziato e uomo di fede, convinto com’era che Dio attraverso le Sacre Scritture e il libro dell’universo aveva inteso guidare l’uomo alla scoperta dell’unica verità. La figlia è sempre presente, anche se in clausura: “Ed invero io non m’avveggo mai d’esser monaca se non quando sento che Vostra Signoria è ammalata, poiché allora vorrei poterla venire a visitare e governare con tutta quella diligenza che mi fosse possibile”. Lei lo aiuta come può, nella corrispondenza, copiando con caratteri eleganti la sua grafia resa incerta dalla malattia, cucendogli una serie di tovaglie da viaggio, rammendando, lavando e candeggiando i vestiti usurati inviategli dal padre che vive da solo non lontano dal convento, preparando pillole ed erbe medicinali per curare i suoi acciacchi, offrendogli suggerimenti e fiducia: “Mi vo immaginando che Vostra Signoria in questa occasione avrà scritto a Sua Santità una bellissima lettera per rallegrarsi con essa della dignità ottenuta, e perché sono un poco curiosa, avrei caro, se gli piacesse, di farmene veder la copia”. Le missive della figlia, scritte fitte nei pochi momenti liberi (“finisco perché il sonno m’assale essendo le tre di notte”), ripiegate e consegnate al fattore che le portava al padre, hanno anche un altro valore: gettano uno squarcio sulla vita del convento, sulle compagne di suor Maria Celeste, ognuna con un compito preciso nella vita comune, sugli orari, e soprattutto sulla povertà assoluta, che faceva sì che le suore spesso patissero la fame. E che spingeva a volte la figlia a chiedere con delicatezza e fiducia aiuto al padre: “Scusimi adunque Signoria Vostra e con la solita amorevolezza supplisca al nostro bisogno. La ringrazio per il pesce e la saluto amorevolmente… “. Qualunque fosse la richiesta, Galileo non mancò mai di soddisfarla, mandando cibo, filo per cucire, soldi, rametti di rosmarino, consigli, e ricevendone in cambio la gratitudine di tutto il convento: “Gli rimando la tovaglia nella quale mandò rivolto l’agnello… affettuosamente la salutiamo in nome di tutte le monache”. E così negli anni, fino ai momenti duri dell’incertezza e del processo (“e chi sa che mentre adesso sto scrivendo, Vostra Signoria non si ritrovi fuori d’ogni frangente e d’ogni pensiero?”), del viaggio a Roma e infine della condanna senza appello (vedi riquadro). Negli anni successivi, quelli della prigionia e dell’esilio del padre, la figlia continuerà ad essergli vicina, anche scrivendo missive a chi poteva intercedere per migliorare la situazione del padre, e incoraggiandolo a non lasciarsi andare perché “con il grande intelletto e sapere che li ha concesso il Signor Iddio può servirlo ed onorarlo infinitamente più di quello che non posso io”. Fino alla morte di lei, avvenuta nel 1634 a causa della dissenteria contratta per aver bevuto acqua inquinata. Galileo, distrutto dal dolore, per mesi troverà conforto solo nella lettura di poesie e dialoghi religiosi. Finché la cecità non lo priverà completamente della gioia di contemplare “quell’universo ch’io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte…”. Galileo spira l’8 gennaio 1642 e, a causa della condanna, viene sepolto senza cerimonie e senza monumento in una piccola e modesta sepoltura “sotto il campanile”. Solo cento anni dopo, nel 1737, viene autorizzato il trasporto della salma dello scienziato nel sarcofago innalzato in Santa Croce a Firenze. Ma grande è la sorpresa dei fedeli discepoli e ammiratori del maestro quando, aprendo la vecchia tomba, si accorgono che questa contiene non uno, ma due scheletri: un uomo, Galileo, e una giovane donna. Le due salme vengono trasportate e composte entrambe, insieme, nella nuova tomba. “Anche oggi, sulla frequentatissima tomba di Galileo, a Santa Croce, non vi sono iscrizioni che annuncino la presenza di suor Maria Celeste. Eppure lei è lì”. 1) Dava Sobel, La figlia di Galileo, Mondadori, e16,53. lla notizia della condanna, suor Maria celeste così scrive al padre: Di S. Matteo, li 2 luglio 1633 Molto Illustre e amatissimo signor Padre, Tanto quanto m’è arrivato improvviso e inaspettato il nuovo travaglio di Vostra Signoria, tanto maggiormente m’ha trafitta l’anima d’estremo dolore il sentir la risoluzione che finalmente s’è presa tanto sopra il libro quanto nella persona di Vostra Signoria…. Carissimo signor padre, adesso è il tempo di prevalersi più che mai di quella prudenza che gli ha concessa il Signor Iddio, sostenendo questi colpi con quella fortezza d’animo, che la religione, la professione ed età sua ricercano. E giacché ella per molta esperienza può aver piena cognizione della fallacia e instabilità di questo mondaccio, non dovrà far molto caso di queste burrasche, anzi sperar che presto sieno per quetarsi e cangiarsi in altrettanta sua soddisfazione… Intanto la prego di non lasciar di consolarmi con le sue lettere, dandomi ragguaglio dell’esser suo quanto al corpo e molto più quanto all’animo; e io finisco di scrivere, ma non già mai d’accompagnarla con il pensiero e con le orazioni, pregando sua divina Maestà che gli conceda vera quiete e consolazione. Affezionatissima figlia S. M. Celeste.

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