Fedor Michajilovic Dostoevskij, amore mio

L’intelligenza del cuore di Anna Grigor’evna Snitkina, seconda moglie di Dostoevskij, lo scrittore russo profeta dei nostri tempi. Riproponiamo l'articolo visto il dibattito in corso sull'opportunità, o meno, di dar voce ad artisti e letterati russi. Essere russi o esserlo stati non è e non può essere una colpa.

Chi conosce, per davvero, una persona? Solo chi la ama. Ed è riuscito a instaurare un rapporto nel quale tale persona si sente amata, libera, se stessa. Purtroppo si può essere moglie e marito, figlio o figlia e padre, figlia o figlio e madre, stare insieme tutta una vita, e non conoscersi. Si può stare tutti i giorni nello stesso ufficio, nella stessa scuola, associazione, congregazione o partito, e non conoscersi. Per conoscersi ci vuole l’amore.

Chi conosce Fedor Michajilovic Dostoevskij? I critici letterari, gli studiosi? Mah! Di certo, lo conosce la gente che lo ha amato. E chi lo amato più di tutti è stata la sua seconda moglie, Anna Grigor’evna Snitkina.

A detta di tanti Dostoevskij era un uomo dal carattere impossibile. Anna è riuscita a tirar fuori da lui, o a vedere in lui, i lati più teneri e umani: «Ricordo come spesso, di sera, giocando con i bambini e facendosi accompagnare con un organetto, Fedja ballasse con me la quadriglia, il valzer e la mazurka, e a onor del vero, la ballava da maestro»; «discorrendo con i bambini F.M. si rallegrava. Egli sapeva sempre sostenere con essi una conversazione animata. Non ho mai visto una persona che sapesse intrattenersi con i bambini come mio marito. In quelle ore F.M. diventava bambino anche lui».

Dostoevskij aveva avuto una vita piena di sventure: i lavori forzati in Siberia, il confino, un triste matrimonio con la prima moglie Maria. Nel frattempo aveva amato altre donne, alla ricerca convulsa di un amore assoluto che non riusciva mai a trovare. Lui era passionale, impulsivo, a volte collerico; era malato d’epilessia, aveva il vizio del gioco d’azzardo, aveva famigliari assillanti da mantenere e creditori che lo ossessionavano.

In tutto questo, Anna riusciva a chiamare Dostoevskij il mio dio. La sua era totale abnegazione, rinuncia alle proprie ambizioni per annullarsi completamente per il marito? Per un certo verso sì. L’amore è anche annullarsi. Ma Anna non era una succube invasata del marito. Lei era molto intelligente, istruita, una delle prime donne russe laureate. Sapeva che viveva accanto a un genio. E diceva: come posso, con le mie piccolezze e con i miei rancori meschini, privare l’umanità di capolavori che solo F.M. può scrivere? Aggiungeva nel suo diario: «Per me Dostoevskij non era soltanto un dio, era anche un uomo… esigente, capriccioso, incapace di adattarsi alla vita… non era sempre grande… ma se alle aquile succede di abbassarsi più delle galline, le galline non si alzano mai fino alle nuvole».

Lei aveva capito Dostoevskij. Perché lo amava. Ed era dotata di quel rarissimo dono che è “l’intelligenza del cuore”, dono che suo marito le ha sempre riconosciuto. Dostoevskij, che lavorava di notte, dopo aver dormito la mattina, leggeva nel pomeriggio ad Anna quanto aveva scritto e le chiedeva sempre che cosa ne pensasse. Lei a volte rispondeva che era “bello”. Ma questo non rassicurava Fedor Michajilovic, anzi lo allarmava.

Lui sapeva che quando si è scritto qualcosa di veramente bello, che tocca le corde del cuore, gli occhi delle persone che ti amano brillano. Se non brillano, e le labbra dicono semplicemente “bello”, vuol dire che non si è raggiunto lo scopo. «F.M. – racconta Anna – dava molta importanza alle mie reazioni spontanee, perché succedeva quasi sempre che le pagine che mi intenerivano oppure mi opprimevano facevano poi lo stesso effetto sulla maggioranza dei lettori».

Dostoevskij una mattina, prima di andare a dormire, spostò un pesante mobile per cercare il suo portapenne che era scivolato lì sotto. Lo sforzo gli causò la rottura di un’arteria polmonare.  I medici non drammatizzarono, pensavano che l’emorragia si sarebbe fermata. Ma Fedor Michajilovic sapeva che era giunta per lui la morte. Fece chiamare un prete, per confessarsi e fare la comunione. Anna lo rassicurava: «Non dire più queste cose. Ora ti senti molto meglio. Non perdi più sangue». Ma lui rispose: «No, lo so, debbo morire oggi. Accendi una candela e dammi il Vangelo».

Aprì il libro a caso, come sempre faceva quando cercava una risposta dall’Alto. Lesse dal capitolo III del Vangelo di Matteo le parole “non trattenermi”. «Senti, Anja – disse a sua moglie – non trattenermi vuol dire che debbo morire». Chiuse il Vangelo. Anna racconta: «Poi mi disse ciò che pochi mariti possono dire alla moglie, dopo una vita coniugale di quattordici anni: “Ricordati, Anja, ti ho sempre amata molto e non ti ho tradita neanche con il pensiero”».

Quella sera, come lui stesso aveva profetizzato, morì, dopo aver baciato i bambini, consegnato al maggiore il suo Vangelo, e tenendo sempre stretta la mano della moglie. La casa era piena di gente, accorsa per avere notizie, per vederlo. Ma lui era già in un altro mondo. Qualcuno dice “dimmi come muori e ti dirò chi sei”. Dostoevskij è morto con una serenità che pochi in lui hanno conosciuto. Ma che era ben famigliare a Anna, che aveva per davvero conosciuto Dostoevskij. Ed è forse lei, più di tanti intellettuali, che ci dà la chiave per leggere i suoi capolavori.

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