Federalismo vuol dire Patto

Bossi Berlusconi
Il Consiglio dei ministri ha varato venerdì 3 ottobre il disegno di legge noto come federalismo fiscale. L’operazione è decisamente straordinaria. Non vi era eccesso di enfasi nelle parole del ministro Tremonti che, nella conferenza stampa di presentazione, l’ha definita storica. In effetti, si tratta una legge che, pur di rango ordinario (l’approvazione è a maggioranza semplice) ha una rilevanza costituzionale, poiché dà vita ad un articolo della Costituzione, il 119, altrimenti congelato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, questo dice il primo comma dell’art. 119 ed è evidente il ribaltamento istituzionale. Naturalmente, nel nuovo assetto, le Regioni la fanno da padrone: dopo l’attribuzione del potere di legiferare in tutte le materie che non siano quelle riservate allo Stato, diventano protagoniste anche in ambito fiscale. Avranno tributi propri e compartecipazione al gettito di tributi statali riferibile al loro territorio, superando l’attuale sistema di finanza derivata, cioè raccolta e ridistribuita dallo Stato. Comuni e Province (ma nel disegno di legge si fanno strada anche le Città metropolitane) saranno anche loro titolari di tributi e di compartecipazioni, con un margine di flessibilità a garanzia di una effettiva autonomia (e qui si gioca un partita importante per evitare di transitare da un centralismo statale ad uno regionale). Ma sappiamo l’Italia com’è: zone di eccellenza ad economia avanzata e servizi pubblici efficienti; zone depresse ad alto tasso di inefficienza pubblica. Traduzione: la capacità fiscale diseguale produrrà ulteriori disuguaglianze. A questo soccorre un’altra parte dell’art. 119, quella che prevede l’istituzione di un fondo perequativo per venire incontro alle aree svantaggiate. Il disegno di legge si occupa anche di questo. Insomma, vediamo chiaramente i contorni della nuova Repubblica, policentrica e a più voci, dove ogni Regione è chiamata ad un nuovo ruolo in virtù dell’autonomia anche degli enti locali, oltre che della propria. Un’autonomia che non deve però significare autoreferenzialità e smarrimento graduale della solidarietà, che pur nel disegno di legge è richiamata tra i principi. A questo scopo, un segnale di unità del Parlamento sarebbe il modo migliore per avviare una ristrutturazione istituzionale. Nessun parlamentare di maggioranza e opposizione (tanto più che la riscrittura del primo comma è opera del governo precedente) si senta chiamato fuori dalla responsabilità di migliorare la legge, tenendo a mente che federalismo viene da foedus, patto. No, proprio non può essere il frutto di una parte.

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