Faust

Libretto di J.Barbier e M.Carré, musica di C.Gounod. Roma, Teatro dell’Opera. Come fa Gianluigi Gelmetti a dirigere con tale raffinatezza e misura l'”operona in cinque atti e balletto” dall’equilibrio così sottile fra intimismo lirico e spettacolarità da grand-opéra (cioè danze, cori, marce, preghiere, duelli, sabba…)? Gounod infatti, del poema di Goethe, individua la storia d’amore tra Faust e Margherita, salvando dell’elemento sovrannaturale la sola figura di Mefistofele: “principe del mondo” galante e seducente, armato di quella razionalità lucidamente perfida che rende invisibile il confine tra bene e male, anche se alla fine è il Bene a trionfare. Faust così condensa nel teatro musicale un mondo che è poi la vita. Gounod, con architetture sonore affascinanti, giri armonici preziosi, eccelle nel melodiare, che sa di Mozart, ma è così francese nello spirito, alato ed elegante, pieno di charme. Gelmetti ha il pregio d’aver intuito questo e molto di più – il mito della giovinezza eterna – e, grazie ad una concertazione che sa di cesello, porta l’orchestra a “respirare la musica”: ne escono sonorità ricche di nuances, tempi “rubati” con misura, ritmi impalpabili e corrusco balenare di bassi. Notevole l’apporto del cast: dal Faust fresco e giovane di Giuseppe Filianoti (da cui ci si aspetta, fra non molto, una ancor più elegante “Salve, dimora”), al Mefistofele di Roberto Scandiuzzi, di bella presenza scenica e di vocalità possente (talora, forse, troppo); dalla bravissima Marina Comparato (Siebel) al virile Alberto Gazale (Valentin), per chiudere con la sensibile e delicata Margherita di Darina Takova. Menzione a parte Corrado Maria Falsini per il coro sempre ben istruito da Andrea Giorgi. Alla resa ottimale del discorso musicale, fa da riscontro l’allestimento (regia scene costumi) di Hugo De Ana. Acuta l’idea d’inscenare dentro un immenso cubo traslucido e mobile tutta l’azione, giocando sull’essenzialità dell’arredo e percuotendolo di luci multicolori: tanto da aver la sensazione, in certi momenti, di venir proiettati nel mondo siderale del mito. Indovinati i costumi che, con le incursioni dall’arcaico al novecento nazista, raggiungono una indubbia felicità visiva. C’è tuttavia un senso di horror vacui che rischia di distrarre dal discorso musicale grazie al moto perpetuo e a sottolineature drammatiche forse eccessive. Sconcertante poi il “sabba”, con il solito trasgressivismo alla moda e la parodia liturgica di dubbio gusto, che appesantisce il pur leggiadro balletto con Laura Comi e Mario Marozzi. Certo, De Hana dà l’impressione di un’accentuazione al negativo dell’opera (ma sarà questo lo spirito di Gounod?), lasciandoci comunque momenti di grande fantasia, fra cui la scena d’amore – in una serra di vasi giganteschi – nel terz’atto e il finale dove il cubo cede alla luminosità della resurrezione. Nel pubblico, alla fine, rimane il fascino di questa partitura la cui bellezza dal 1869 continua a dare felicità: perché mantiene la sua giovinezza, se c’è gente (come Gelmetti e compagni) che ci crede.

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