Eutanasia: diritto o condanna?

La fragilità, la disperazione e la solitudine del malato che tende a sentirsi un peso per gli altri. I fattori economici e l’alibi della dolce morte.

Le implicazioni sociali, etiche e mediche sono al centro della preoccupazione di molti rispetto all’atteso disegno di legge francese sulla fine della vita. Tra questi vi è Jean-Marc Sauvé, vicepresidente del Consiglio di Stato nel tempo in cui si dibatteva sulla sospensione dei trattamenti di sostegno vitale per Vincent Lambert.

In un corsivo apparso in data 8 settembre su Le Monde Sauvé solleva alcune questioni fondamentali che valicano il confine francese e che invitano tutti alla riflessione. «La società non può essere considerata come la semplice coesistenza di libertà individuali che non imporrebbero a nessuno alcun tipo di obbligo verso gli altri», scrive l’autore, aggiungendo che la «corrente in favore della legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito misconosce questa dimensione essenziale».

In altre parole Sauvé sottolinea come la cura e la sollecitudine verso l’altro prevedano di non lasciarlo in balia né della sua sofferenza né della decisione suicidaria. «Vulnerabilità, handicap, malattia, vecchiaia, dipendenza» sono dimensioni che, “risolte” in una sfera privata, finirebbero per essere alienate dalla costruzione sociale dell’uomo.

I malati tendono a sentirsi un fardello per gli altri: il 53% dei suicidi assistiti in Oregon l’anno scorso aveva come “movente” la volontà di non essere un peso per parenti e amici. Un medico olandese, membro dimissionario di una commissione regionale per il controllo in Olanda della legge sull’eutanasia, riferiva di come la legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito siano diventate rapidamente une incitation au désespoir (incitamento alla disperazione), innescando una spirale verso il basso grazie alla quale chi è fragile tende a sentirsi sempre più in dovere di farsi da parte.

A rafforzare ulteriormente questo passaggio dal “diritto a morire” al “dovere di morire” si trovano, si legge ancora nell’articolo, i fattori economici: «la rivendicazione dell’autonomia presenta un interesse economico difficile da confessare ma reale».

Solo nel 2021 un rapporto del parlamento canadese registrava un risparmio netto di 87 milioni di dollari canadesi (circa 59 milioni di euro) grazie alla “dolce morte”: «l’ultima scaltrezza della nostra società materialista – scrive Sauvé – non sarebbe forse quella di ripararsi dietro la nobile causa dell’autodeterminazione individuale per mascherare un’insufficiente offerta di cure, soprattutto palliative, e per alleggerire il peso della solidarietà verso i più anziani e i più fragili dei suoi membri?».

Pensando ad alcuni colloqui con i pazienti e con i loro familiari abbiamo spesso ascoltato storie di degrado nei rapporti tra curanti e pazienti, di relazioni umane inesistenti, di vere e proprie umiliazioni inflitte anche solo per una domanda di troppo, di una comunicazione inesistente, di una solitudine agghiacciante giunta nel momento del massimo dolore e del più grande bisogno.

L’eutanasia o il suicidio come «un alibi per non aver voluto o saputo prevenire le situazioni di fragilità» che sfociano nella tentazione di eliminarsi, la morte assistita come espressione della «disperazione personale e dell’impotenza collettiva». Jean-Marc Sauvé termina con una domanda, la stessa che tutti dovremmo porci: «qual è la nostra visione della persona umana e quale società vogliamo costruire insieme?».

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