Estorsioni, insieme per vincere la paura

Diecimila mila persone per le vie della città campana di Pomigliano d'Arco per riscattare il territorio dalla paura. Intervista a Salvatore Cantone della Federazione contro l’usura e il racket  
Pomigliano libera

 Il 19 marzo nella cultura meridionale è una data importante perché è l’onomastico di un nome diffuso: Giuseppe induce una familiarità che si accompagna alla cura che esercita il santo che “custodisce”.

Dall’assassinio di don Peppino Diana, avvenuta a Casal di Principe il 19 marzo del 1994, quel nome vuol dire non cedere alla menzogna e alla rimozione, ma affermare, come faceva don Peppe citando Oscar Romero, «per amore del mio popolo non tacerò».

Cosa significa per un imprenditore che si è ribellato al racket, portare avanti una battaglia di civiltà contro il sistema mafioso? Lo chiediamo a Salvatore Cantone che con la Federazione antiracket e antiusura (Fai), la collaborazione delle molteplici realtà nate in seno alla parrocchia di san Felice in Pincis a Pomigliano d'Arco e di Gioventù nuova del Movimento dei Focolari, è riuscito a far sfilare per le vie di Pomigliano in un giorno feriale, il 19 marzo del 2013, ben 10 mila persone. Cantone il 21 marzo, giornata della memoria delle vittime innocenti di Mafia, ha ricevuto la menzione d’onore dal “Comitato don Diana” e Libera Caserta.

Che significa camminare nelle vie di una città ancora da liberare dal dominio di un potere pervasivo come quello che strozza l’economia con l’usura o impone spudoratamente il pizzo?
«Camminare per le vie della città dove ancora esiste il pizzo, l’usura e illegalità, significa che esiste una società civile che intende impadronirsi della città e che ci sono persone, istituzioni e forze dell’ordine che sono disponibili ad aiutare chi sta sotto attacco di fenomeni estorsivi. Non è affatto un momento simbolico. Anzi, è solo l’inizio di un lungo cammino. Ci impegniamo ogni anno a portare più persone a questa marcia della legalità in memoria di don Peppino Diana, anche perché la marcia della legalità è il momento conclusivo di un percorso di formazione che portiamo avanti nelle scuole. Questo vuol dire che abbiamo contributo alla formazione di molte coscienze personali per non far cadere nell’oblio le persone che hanno sacrificato la loro vita per una società migliore».

Come era la situazione quando avete cominciato nel 2007? Cosa è cambiato?
«Abbiamo sentito, prima di tutto, la necessità di affermare pubblicamente l’esistenza della camorra nella città e – nel contempo – la presenza di associazioni sul territorio che cercano di contrastarla. Questo ha voluto dire impadronirsi delle strade dove la presenza camorristica è assai radicata. La cosa bella è stata, inoltre, ricordare assieme un martire come don Peppino Diana, anche perché, fino allora, non esisteva una manifestazione in Italia che ricordava il suo sacrificio.

Alla prima manifestazione eravamo circa mille persone. Per le strade ci guardavano tutti con stupore e qualcuno ha avuto paura di farsi vedere alla manifestazione, ma noi eravamo orgogliosi di quell’evento. Il primo tragitto che abbiamo scelto interessava proprio le strade dove io ero considerato dai camorristi, ma anche da alcuni commercianti e imprenditori collusi, un traditore perché avevo deciso di oppormi alla malavita organizzata. Col tempo, abbiamo registrato l’aumento della presenza delle persone oneste disposte ad esporsi, mentre la presenza fisica dei camorristi è diminuita. Quest’anno siamo arrivati a 10 mila persone che hanno sfilato in zone che, fino a poco tempo fa, erano sotto dominio assoluto della camorra».  

Ma come si vince la paura?
«È difficile rispondere. Posso dire qualcosa in base alla mia esperienza: prima come vittima e poi come persona che cerca di convincere le vittime di estorsione ed usura a denunciare. Nella decisione di denunciare il racket hanno inciso tre fattori: la fede, la dignità e la famiglia. Al mio rifiuto di pagare il pizzo, gli estorsori hanno cominciare a rubare di tutto nella mia azienda. Un gesto per dire che si ritengono i padroni assoluti, capaci di decidere la sorte delle persone. Ribellarsi contro questa menzogna significa che sono io che decido della mia vita e non loro. Ho provato molta paura e solitudine, poi ho conosciuto l’associazione antiracket ed è cambiato tutto. Le persone che adesso si avvicinano a noi, vedono che continuiamo la nostra vita anche senza scorta. Cominciano così a liberarsi, man mano, dalla paura, sanno che non resteranno sole e che le istituzioni gli sono vicine».

Quali responsabilità ha il sistema bancario nello spingere gli imprenditori a rivolgersi alla finanza camorristica?
«Posso dire qualcosa a partire da storie che conosco direttamente. In alcune banche sono gli stessi funzionari che indicano a chi rivolgersi dopo che il cliente ha ricevuto l’ennesimo rifiuto di un prestito bancario. Fisicamente fuori le banche ci sono usurari che concedono ai commerciati piccole somme per pagare qualche assegno così da non farli andare in protesto. Sono piccole cifre, anche 100 euro. E se le banche non prestano nemmeno queste piccole somme, finisce che la mattina sono costretti a rivolgersi agli usurai, che si presentano la sera stessa a prelevare 200 euro dall’incasso della giornata».

Le vostre associazioni antiracket producono fatti concreti. Arrivate a denunciare, con nome e cognome, l’estorsore e accompagnate le vittime durante le delicate fasi processuali. Che tipo di incoraggiamento avete ricevuto dal ministro dell’Interno incontrato a Napoli proprio all’indomani del rogo della Città della Scienza?  
«Ci ha detto di andare avanti e di raccontare il bello, come il numero delle denunce che possiamo fornire da cui risulta che esistono persone libere e istituzioni a loro vicine. Dobbiamo lasciare alle future generazioni una società senza mafie e corruzione».

Che tipo di collaborazione potete portare avanti con Gioventù nuova?
«Con Gioventù nuova non possiamo fermarci a questo ultimo evento del 18 e 19 marzo. Vorrei che nascesse una forte collaborazione. C’è tanto da fare come, ad esempio, portare avanti il discorso del consumo critico e continuare la formazione nelle scuole. Non possiamo, in questa fase, chiedere ai giovani di assistere le vittime di estorsione o usura, ma abbiamo bisogno dei giovani e loro mi sembrano disponibili».

 Che tipo di sostegno chiedete a livello nazionale e a Città Nuova in particolare?
«Il più delle volte abbiamo bisogno del silenzio (quando dobbiamo costituire associazioni, convincere qualcuno a denunciare, ecc) perché c’è in gioco la vita delle persone e quindi preferiamo non parlare. Ma ci sono momenti, come questo della marcia della legalità a Pomigliano, in cui abbiamo bisogno di farci conoscere. Ma pochi ne parlano. Quando si muove Libera c’è una grande macchina organizzativa che coinvolge i mezzi di informazione con la presenza di personalità famose. In gran parte noi siamo persone comuni: non facciamo notizia e ci sembra anche strano chiedere visibilità, ma andiamo avanti lo stesso. Dieci mila persone che marciano a Pomigliano per affermare la legalità sono una notizia al di là dei numeri. Vuol dire che esistono uomini e donne che, in maniera gratuita e con grandi sacrifici, cercano di liberarsi dalle mafie».

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