Essere cristiani in terra palestinese

Tra check point, muri e discriminazioni chi ha fatto del Vangelo la sua regola di vita resta a testimoniare, pur tra i disagi e le violenze, che la pace e il dialogo sono gli unici valori che daranno a questo Stato una chance di futuro
Bambini palestinesi attraversano una strada durante la tregua con Hamas

Ore 12:30 circa di venerdì scorso. Nessun altra macchina passava il check point che segna l’ingresso nei Territori Palestinesi. C’era solo la nostra ‘fuori serie’ da pochi euro di valore: piu’ unica che rara. E’ cosi’ scassata questa utilitaria, che persino i garzoni della panetteria ridevano a crepapelle quando siamo andati a comprare il pane: noi stranieri alla guida di una tale macchina sembravamo più barboni che occidentali. La nostra Citroen non ha aria condizionata, i vetri si abbassano con l’aiuto della mani e lo spazio dentro non e’ che abbondi. Il resto lo lascio alla vostra immaginazione. Eppure ci aiuta perfettamente a muoverci per questa strade e queste regioni.

Si respira tensione nell’aria: passato il controllo dei passaporti ci dirigiamo verso la casa che ci attende. La senti, la respiri questa sottile e grave inquietudine e non capisci esattamente da dove arriva. Ci inoltriamo nei Territori. Vedo a destra una telecamera piazzata: chiaramente il cameraman e’ al riparo dietro il Muro. Piu’ avanti in strada, sia a destra che a sinistra, vedo polizia e militari in assetto anti sommossa. AK47 in spalla ed auto blindate. Tutto pronto per una manifestazione contro “il muro”. Più avanti sulla strada si forma un imbuto per la quantità di macchine ferme alla moschea: venerdì è giorno sacro per i musulmani ed i parcheggi praticamente non esistono. L’altoparlante urla qualcosa per placare il caos. Ai militari chiedo di scendere per scattare delle foto alla gente seduta sugli scalini. Me lo proibiscono e l’auto accelera per passare oltre: stiamo dando nell’occhio e stiamo facendo problemi e quindi meglio lasciar perdere

La serata la trascorriamo con una delle famiglie cristiane del luogo. Non una famiglia povera, ma una famiglia provata dalla vita quotidiana, quella che ti fa anche piu’ male che mai, perché e’ la storia che si vive ogni giorno e tutti i giorni in un pezzo di Territorio Palestinese, dove chiusi come in un lager si cerca di mantenere un lavoro e una vita dignitosa. Per noi occidentali abituati alla tolleranza, al dialogo, sembrano quasi favole o piccolezze questi banali gesti quotidiani ma la misura dell’eroicità la scorgi quando guardi gli occhi dove la paura sottile, costante si mescola ad un dolore potente. Questo è il pane quotidiano in Cisgiordania: persone come tutti noi, senza neppure l’elementare diritto ad una vita serena: eppure restano qui, nella loro terra amata e disperata.  Se sei cristiano, devi stare molto attento, perché può accadere che altri abbiano la precendenza sul tuo lavoro, sulla tua parola o sul pagamento dell’affitto di casa che devi ricevere dal coinquilino. Non e’ detto tu possa costruirti la casa sul tuo terreno o se hai degli alberi da frutto e’ possibile che altri vengano a raccoglierli e tu, anche se li mandi via, questi ladri si sentono impuniti e restano. Poi ci sono le emarginazioni tra compagni di scuola, quando devi parcheggiare o entrare in un negozio. Il papà confessa però che alcuni clienti lo stimano e lo cercano spesso perché la qualità del suo lavoro svolto con coscienza e dedizione.  Mi guardo e riguardo questa famiglia ed ascolto storie assurde per me:  li ammiro profondamente.

Questa terra di Palestina continua ad essere imbevuta di lacrime: mi sembrano dei veri fiori rari, questi cristiani nati in un deserto, confinati nell’arsura. Cosa ci fanno qui? Rispondono con amore all’odio, chiedono dialogo e serenità. Me ne accorgo stasera, quando andiamo a piedi a comprare del pane e della frutta: la gente ci ferma per strada per parlare con noi, col poco inglese che riescono a masticare. La gente comune vuole rapporti sereni. Sono questi i semi di pace in attesa di germogliare?

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