Ero considerato un “elemento pericoloso”

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Avevo 19 anni. Poco prima di partire da Varese, a chi mi consigliava di entrare nella Fuci (Federazione universitari cattolici italiani), avevo risposto con un secco: Mai!. Tuttavia a Bologna, dove mi ero iscritto a ingegneria, mi sentivo solo, e siccome la sede dell’associazione era proprio prossima alla mia facoltà, ci andai per parlare con qualcuno. Lì rimasi così colpito dallo sguardo di una ragazza che il giorno dopo, pur di rivederla, mi unii ad altri giovani in pellegrinaggio al santuario della Madonna di San Luca, poco fuori Bologna. Tutti camminavano recitando il rosario. Per non fare brutta figura finsi di pregare anch’io, ma sentendomi ridicolo decisi di imparare l’Ave Maria e cominciai a pregare sul serio. Dopo un po’ ebbi la precisa sensazione che qualcuno mi stesse ascoltando come mai m’era accaduto in quel modo. Da quel momento la mia vita cominciò a cambiare. Cosa avevo combinato fino ad allora? Ben poco. A parte infatti i successi in basket, a Varese ero stato un leader nell’organizzare scherzi, scioperi, feste da ballo… Nel desiderio di impegnarmi per gli altri, ero stato anche presidente della Giovane Italia. Quando però mi resi conto che era una associazione giovanile creata dal Msi, ne uscii. Intanto il prevosto (il rappresentante del vescovo) aveva fatto affiggere per la città dei manife- sti in cui invitava i giovani a stare alla larga da me, ritenuto un elemento pericoloso. All’università facevo fatica (dovevo imparare a studiare sul serio, ciò che non avevo mai fatto), per cui mi si confermava l’idea di essere poco intelligente. E un’altra cosa mi faceva soffrire: la sensazione di essere prigioniero, un uomo non libero. Anche quando facevo qualcosa di buono per gli altri, sentivo che in fondo non era che egoismo sopraffino; neppure l’amore per la mia ragazza mi liberava dalla gabbia che ero io stesso. Dopo qualche mese dovetti trasferirmi a Napoli, con i miei. La città mi parve caotica, disorganizzata. Solo col tempo mi resi conto che i napoletani avevano una loro forma di organizzazione, spesso più intelligente e funzionale di quella cui ero stato abituato. Cercando compagnia, feci amicizia con Mario, Enzo e Nando: tre studenti di medicina che abitavano nella ex portineria di un vecchio convento, fra statue polverose di santi. Facevano parte dei Focolari, ma all’inizio li scambiai per una strana setta religiosa. Una cosa era certa: con loro sperimentai per la prima volta un rapporto finalmente umano, senza maschere. E le loro storie di vangelo vissuto cominciarono a far breccia in me. La sera stessa in cui li avevo conosciuti, a casa, come al solito, mi ero piazzato davanti al televisore aspettando che mia madre mi preparasse la cena. Ripensando però a quanto avevo ascoltato sull’amore del prossimo, mi dissi: Forse non è volontà di Dio far alzare mia madre. Così andai in cucina e mi preparai un uovo fritto. Mi resi conto che era qualcosa di sacro, e mi sentii come un prete alla sua prima messa. Quando poi i miei nuovi amici mi parlarono dell’unità che Gesù aveva chiesto al Padre, pagandola con la croce e l’abbandono, fu per me una rivelazione; intravidi la chiave per uscire dalla gabbia dentro la quale mi sentivo costretto e quella sera, nella chiesa più vicina, davanti al tabernacolo, dissi un sì a voce alta a Gesù. Era un modo per vincolarmi a lui. Era la primavera del ’58 e anche per me era iniziata la rinascita di una nuova stagione! Ero il Turi con i limiti di sempre, eccessivamente timido e pasticcione, ma allo stesso tempo mi sentivo importante: potevo amare e il mio amore era unico al mondo. Di qui una gioia inesprimibile. Per quanti desideravano conoscere la nostra esperienza di vita organizzavamo degli incontri familiari a casa di un simpatizzante, papà Pisani: il tipico napoletano dall’intelligenza penetrante, di forte personalità, dal cuore grande. Ero l’ultimo arrivato, eppure mi sentivo responsabile anch’io della nascente comunità. Nel frattempo avevo lasciato ingegneria e mi ero iscritto a fisica, disciplina che trovai appassionante. Dio mi era così presente col suo amore che perfino i testi di meccanica quantistica mi fornivano occasioni per contemplare! Durante la settimana frequentavo le lezioni all’università, il sabato e la domenica erano consacrati invece alla vendita di Città nuova davanti alle porte delle chiese, com’era consuetudine in quegli anni. La vocazione? È una questione di generosità . Questa risposta ad un mio dubbio, ricevuta nell’agosto del ’59, continuava a lavorarmi. Eppure mi sembrava impossibile che un tipo come me potesse lasciar tutto per Dio. E la mia fidanzata? Come rinunciare a lei? Fra l’altro, dati i miei frequenti feroci mal di testa, non sapevo quanto avrei resistito ad una vita intensa di donazione. Ma non sta forse scritto che tutto è possibile a Dio? In effetti le cose si svilupparono in modo che inopinatamente ebbi il via libera per iniziare la mia trafila di aspirante focolarino. Quando diedi la notizia ai miei, mia madre fu colta da una crisi di nervi. A sua volta, l’assistente della Fuci, di cui ero diventato presidente, non mi nascose le sue perplessità. Si poteva capirlo: il movimento, a quel tempo, doveva ancora ricevere l’approvazione della Santa Sede. Dopo aver abitato per qualche tempo da solo in un appartamentino messo a disposizione dal conte Mangoni, nostro amico, nel 1963 – anno della mia laurea in fisica – mi unii con altri due compagni, per aprire sul Vomero un vero focolare. I primi mesi furono un’avventura. Avevamo pochi soldi. La provvidenza ci aveva procurato un sacco di pasta e uno di biscotti, così per qualche tempo il vitto fu assicurato; la situazione si normalizzò dopo che io e Mino trovammo lavoro come insegnanti in una scuola tenuta dagli Scolopi. Intanto s’era aggiunto a noi anche un tedesco. Non eravamo quasi mai d’accordo: se dicevo bianco, lui diceva nero, e viceversa, ma nessuno dei due si arrendeva, finché, piano piano, diventammo fratelli in modo profondo e duraturo. Fra i tanti, mi ricordo un episodio avvenuto a Procida. Io e Salvatore eravamo stati invitati a presentare la nostra esperienza ad una folla radunata sulla piazzetta prospiciente il porto. La cosa simpatica era che dovevamo parlare su una barca, un po’ come capitò a Gesù sulle sponde del lago di Tiberiade. Finito il raduno, ci intrattenemmo con varie persone rimaste interessate: le future colonne del movimento sull’isola. C’era da rimanere incantati nel vedere come fioriva la comunità a Napoli. Ci sembrava di toccare con mano l’intervento di Dio. C’erano famiglie, sacerdoti, ma soprattutto giovani, divenuti di casa da noi. Era il loro momento: in quegli anni infatti esplodeva un po’ dovunque la seconda generazione dei Focolari. Iniziammo pure proficui contatti ecumenici col mondo ortodosso. Per diverso tempo, tuttavia, con capimmo come mai tanti, pur applaudivano con entusiasmo ai nostri incontri, poi sparivano. Pensavamo che i napoletani fossero dei fuochi di paglia. Finché qualcuno ci aiutò a capire che era il caso che ci convertissimo noi, cercando di donare il vangelo vissuto. Come il pellicano che – dice la leggenda – nutre i suoi piccoli col proprio sangue. Piano piano gli applausi diminuirono ma tante più persone vennero ad impegnarsi con noi. Incominciavamo a conoscere i napoletani, la loro intelligenza, il loro senso dell’umorismo, la loro umanità maturata nella sofferenza, e quel profondo senso della libertà che aveva loro permesso di sopravvivere a tante dominazioni. In quegli anni mi capitò di pranzare con i baraccati del porto e di cenare a casa di nobili. Spesso frequentavo famiglie nei bassi dei vicoli, scoprendo come i poveri si aiutavano fra loro, con molta dignità. Oltre che in Campania, il movimento si sviluppava anche in Puglia, dove Mino ed io su una vecchia 600 (la gloriosa bisnonna) facevamo periodiche puntate per mantenere i contatti con quanti ci conoscevano. Anni di fondazione, dunque, durante i quali imparai a cercare un rapporto intimo, esclusivo con Dio, pur immerso fra gente e attività di ogni genere. Non era certo facile conciliare queste due tensioni. Ma noi siamo figli di un Dio che è Uno e Trino: una bella contraddizione! È il paradosso del vangelo: ti butti, per amore di Gesù abbandonato, in fondo al buio e trovi la luce, in fondo al non-amore e trovi l’amore; ti impegni ad amare a un prossimo, e scopri Dio nel più intimo di te stesso; fai altrettanto nei riguardi di Lui, e si apre un rapporto più pieno col fratello. Sì, certe apparenti contraddizioni si risolvono solo essendo l’amore nell’attimo presente. E ciò non senza l’aiuto dello Spirito Santo, al quale spesso ho chiesto la sapienza: che è ben più di essere più o meno intelligenti.

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