Emergenza acqua. Poteri e finanza nella sfida della gestione pubblica

Sessanta miliardi da trovare per le reti idriche e la questione dei capitali da investire. Colloquio con Gian Carlo Elia Valori, autore del volume "Geopolitica dell’acqua"
Acqua pubblica

Come ha affermato l’editorialista del Corriere della Sera, Stefano Folli, presentando in una conferenza del 2012 l’ultimo libro di Gian Carlo Elia Valori (Geopolitica dell’acqua, Rizzoli editore), la questione dell’acqua permette di definire il quadro della politica estera dei prossimi anni. E Valori, ogni volta che interviene pubblicamente, chiama a raccolta esponenti di primo piano del mondo della finanza, della diplomazia e del management pubblico e privato.

Suscita una certa impressione osservare una platea del genere ascoltare tesi sull’acqua che assomigliano in parte alle posizioni più critiche della globalizzazione liberista. Eppure il professor Valori, ufficiale della Legion d’onore in Francia, detentore di importanti cattedre in prestigiosi atenei (la Yeshiva university di New York, l’Hebrew university di Gerusalemme e la Peking university) non ha solo un passato da grande dirigente dell’industria di Stato, ma è oggi il presidente onorario dei colossi cinesi Hauwei Italia e HNA Group e, tra l’altro, il presidente della holding Centrale finanziaria spa dove, tra i soci principali, compaiono Assicurazioni Generali e Acciaieria Val Bruna. Vicepresidente della holding è il finanziere franco algerino Tarek Ben Ammar, presentissimo in molte vicende societarie (vedi Telecom) che interessano direttamente l’economia del nostro Paese.

Partendo da un articolo dove abbiamo citato alcuni passaggi del suo libro, è nata l’occasione di un’intervisita diretta.
 

Come risposta allo stress idrico, è ricorrente la sua convinzione di dover ricorrere alla desalinizzazione dell’acqua marina. Ma si tratta di un processo che richiede, a suo giudizio, la ripresa dei programmi nucleari rigettati con l’ultimo referendum. L’aggravarsi della penuria d’acqua potabile in Italia è destinata, quindi, a provocare nuovi equilibri di politica economica nel breve periodo?
«Mi sembra opportuna una premessa: ho sempre ritenuto che la separazione tra proprietà “rete” e acqua propriamente detta fosse un puro artificio giuridico, come se si trattasse la separazione del segnale telefonico dalla sua rete, fuori dalla quale esso non esiste. Conosco bene il passaggio dalla “legge Galli” (n. 36 del 1994) a quelle successive (Dl.135/2009) con la progressiva liberalizzazione delle norme sulle acque. In parte si è trattato di un processo positivo. Beninteso: occorre garantire la copertura degli investimenti per la ristrutturazione della rete idrica, che è ormai disastrata, e si tratta di calcolare il 38 per cento di perdite di rete, con un costo di 2,5 miliardi di euro persi a tariffa e un totale di interventi sulla rete che è pari a circa 60 miliardi di euro. Ormai siamo fuori dai piani di intervento normali. Chi li tira fuori questi 60 miliardi? E in tempi entro i cinque anni, il ciclo normale delle infrastrutture idriche? Il 34 per cento della popolazione italiana ha l'acqua gestita in “esercizio provvisorio”, con tutto ciò che questo comporta, anche sul piano tariffario, mentre il 30 per cento della popolazione non fruisce del trattamento delle acque reflue. Il che ci ha posto in difficoltà con l'Unione europea. Altro che ecologia! Qui siamo alla Milano descritta da Manzoni nella “storia della colonna infame”. Siamo in piena emergenza. Cosa fare? Fuori da ogni illusione populista, occorre definire la linea degli investimenti per la ristrutturazione della rete. Bene: si potrebbe fare un certo ricarico di costi sulla bolletta, per le varie aziende, che va direttamente (mai fidarsi) ad un fondo dell’Acqua pubblica, che sceglie in primis le linee più disastrate. Ma i tempi li vedo ormai tutti “fuori norma”. Per quanto riguarda l'osmosi inversa, l'idea migliore per la dissalazione e purificazione delle acque marine, si tratta di far trattare questa materia almeno come sono state trattate le “fonti energetiche rinnovabili”».

Cioè come è avvenuto con il cip6 in bolletta della luce che ha finanziato la costruzione dei termovalorizzatori?
«Non si tratta di mettere tasse nascoste nella bolletta, e non vogliamo nemmeno favori esoterici nelle norme di attuazione, ma un regime fiscale accettabile, quello sì. E sarà da lì che ripartirà la rete locale delle acque italiane, che vedo gestita da cooperative, da associazioni di cittadini, da organizzazioni locali dal basso e ad hoc».

Ma secondo il pensiero liberista, questi 60 miliardi necessari per rimettere a posto la nostra rete idrica non possono arrivare che dalla leva finanziaria che solo grandi società multinazionali sono capaci di recuperare, in vista di un ritorno adeguato del capitale investito pagato dai consumatori. Si dice che l’importante è avere acqua buona a prezzo conveniente senza preoccuparsi di chi la gestisce. A suo giudizio è ipotizzabile, invece, un tipo di gestione pubblica efficace che sia in grado di assicurare la gratuità di un minimo giornaliero per tutti?
«Sì, e in due modi. Se si andrà verso un oligopolio delle grandi aziende distributrici delle acque in Ue, allora occorrerà stabilire per legge (anche locale, ormai con questa storia del federalismo bisogna ripetere tutto tre volte, se basta) che, oltre un certo reddito definito e certificato, la bolletta idrica non può superare un massimale di euro. E, si noti bene, non bisogna dire che lo Stato “integra”, altrimenti sia il consumatore che il gestore sono indotti all'azzardo morale. Niente. Oltre il massimo stabilito, o si paga o si va in dibattimento. Allora, lo Stato potrebbe finanziare la nascita di tante cooperative dell’acqua locali, lasciando al big business le reti maggiori. Quindi, una “soglia” ben calcolata per la tariffa acquea. In secondo luogo, si tratta di verificare l’efficacia delle attività delle aziende nella ristrutturazione della rete. Se investono in lavori di riadattamento delle reti idriche, si può pensare ad una quota di sconto fiscale proporzionale agli investimenti nel rinnovo di infrastrutture. Certamente, o le multinazionali dell'acqua avranno altri cespiti di entrata, e questo permetterà loro di tenere basse le tariffe almeno all'inizio della loro gestione, oppure la “favola bella” della razionalità ed economicità del prezzo andrà a farsi benedire molto rapidamente. Ma perché non viene fuori un “terzo settore” accettabile per le multiutility? Avete paura del big business? Con la dirigenza delle imprese si può sempre discutere, sono i politicanti locali da evitare fin dall'inizio».

Come giudica l’ipotesi di coinvolgere la Cassa depositi e presiti nell’assicurare l’intervento pubblico nella gestione del ciclo idrico?
«Il fondo strategico (Fsi) della Cassa depositi e prestiti (holding finanziaria della stessa Cassa, ndr) sta operando bene. L'acquisto, per esempio del 6 per cento di Hera (multi utility operante in Emilia Romagna e Marche, ndr), è un’ottima notizia. Le scelte per “operazione San Giacomo”, con IREN, F2i, alcune fondazioni bancarie oltre alla Cassa depositi e prestiti per la rete idrica tra Liguria e Emilia Romagna è, sulla base di quello che risulta alla stampa, anch'essa una buona notizia. La questione è, ancora, come gestire il fondo tariffe e come remunerare gli investitori. Queste sono operazioni che richiedono tempi medio-lunghi e c'è il pericolo che, in mancanza di capitale di rischio a tempo accettabile, il mercato delle acque italiano si rivolga a investitori “mordi e fuggi” provenienti da Paesi lontani, o ad aziende che poi calcolino un ritorno politico per una loro “pazienza” di investitori professionali. È un altro pericolo. Il 7 per cento di redditività, poi, degli investimenti, incorporato nelle tariffe, e stabilito per legge, è un doppio strumento: serve a costringere le imprese del settore a fare buoni investimenti, serve a rendere appetibile il titolo (è già successo) e serve a favorire la rendita. Il che, naturalmente, non va affatto bene».

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