Emergency, conoscere e denunciare l’assurdità della guerra

Intervista a Rossella Miccio, presidente di Emergency, organizzazione fondata da Gino Strada per offrire cure gratuite alle vittime della guerra, delle mine antiuomo e della povertà. In 30 anni di vita ha operato in 20 Paesi, anche in Italia, curando 13 milioni di persone in luoghi dimenticati dall’informazione. Come nel Sudan in guerra dove Emergency ha aperto dal 2007 il primo Centro di cardiochirurgia totalmente gratuito
Emergency Centro-di-chirurgia-pediatrica-di-Entebbe in Uganda_foto di Davide-Preti-
Rossella Miccio, foto Orianna Girardi

Rossella Miccio è la presidente di Emergency la famosa organizzazione legata al nome di Gino Strada, il medico chirurgo di Sesto San Giovanni che, dopo tante esperienze sul campo, decise nel 1994, con la moglie Teresa Sarti e un gruppo di amici, di creare una realtà sanitaria capace di andare nelle zone di guerra a curare le persone colpite dagli effetti diretti e indiretti dei conflitti armati.

Emergency ha operato, finora, in 20 Paesi continuando a non limitarsi a prestare soccorso medico ma anche, con la sua attività di ogni giorno, a denunciare l’assurdità di ogni guerra. Un tratto politico che molto probabilmente ha ostacolato il riconoscimento del Nobel della Pace a Gino Strada che è morto nel 2021, proprio mentre l’abbandono dell’Afghanistan da parte degli Usa nelle mani dei talebani palesava la tragica inutilità dell’intervento armato deciso nel 2001, seguito da 20 anni di presenza militare sul territorio e da un gigantesco dispendio di denaro. Emergency si è distinta, in particolare, nel denunciare la diffusione delle mine antiuomo, prodotte per decenni anche nel nostro Paese, come raccontato nel famoso libro “Pappagalli verdi” scritto da Gino Strada.

Le realtà feconde sono sempre un’opera collettiva e ben radicata che non si esauriscono con la scomparsa del fondatore.

Ho incontrato a Pistoia, a fine ottobre, Rossella Miccio appena arrivata dal Sudan, dove Emergency ha aperto dal 2007 il primo Centro di cardiochirurgia totalmente gratuito in Africa, ideato per una condizione di relativa stabilità del Paese africano, precipitato, invece da alcuni mesi, in uno stato di conflitto armato interno tra fazioni opposte che hanno trasformato il presidio ospedaliero in un’unità di chirurgia d’emergenza.

“Non sono un pacifista, sono contro la guerra”. Cosa significa oggi questa nota affermazione di Gino Strada?
Per noi significa conoscere la guerra da vicino. In 30 anni abbiamo curato quasi 13 milioni di persone in giro per il mondo che la guerra l’hanno subita sulla propria pelle. Sentiamo la necessità di far conoscere davvero cosa significa la guerra a chi la ignora. Vogliamo far capire la follia di pensare ancora, nel 2023, che la guerra sia lo strumento utile a risolvere i problemi. È invece uno strumento estremamente dannoso e pericoloso che non si può controllare dando vita ad una serie di escalation che neanche chi ha iniziato il conflitto poteva immaginare. Pensiamo perciò che sia ancora possibile interrompere questo meccanismo infernale pur vivendo i giorni foschi della tragedia in Israele e Palestina che sembrano affievolire ogni speranza.

Non si rischia di essere velleitari davanti a tanti conflitti che non si riescono a fermare in alcun modo davanti alla determinazione dei decisori politici?
Io non credo affatto che sia inutile l’iniziativa della società civile che chiede e lavora per fermare i bombardamenti e la guerra. Ne avverto, invece, tutta l’urgenza e la necessità. Chiunque prende delle decisioni in nostro nome (cioè dell’umanità intera) deve essere chiamato a rendere conto di ciò che ha fatto. E questo vale ancora di più per noi che siamo orgogliosi di vivere in una democrazia. Credo che sia necessario contrastare una narrazione unidirezionale che finisce per incidere sull’opinione pubblica. Anche se in spazi sempre più ridotti siamo chiamati a dare ragione e mostrare soluzioni e proposte alternative alla guerra. Dobbiamo rivendicare la dignità di una cittadinanza in grado di incidere sulle scelte pubbliche. Ritengo inaccettabile e scandaloso, ad esempio, il voto di astensione dell’Italia sulla risoluzione Onu del 27 ottobre che chiede una cosa del tutto ragionevole come il cessate il fuoco e lo stop ai bombardamenti sulla popolazione civile di Gaza.

Sei appena sbarcata dal Sudan, un Paese africano sconvolto dalla guerra, dove siete presenti da oltre 20 anni. Qual è la situazione?
Dal 15 aprile, nel silenzio mediatico mondiale, è scoppiata una nuova guerra che è stata definita dalle Nazioni Unite la più complessa e grave crisi umanitaria dei nostri giorni. In 6 mesi si contano 5,5 milioni di sfollati, un milione di profughi negli Stati limitrofi, mentre non sappiamo il numero di morti e feriti. Noi in quel silenzio totale continuiamo ad operare a Khartoum con l’ospedale e poi con i centri pediatrici. Abbiamo anzi aumentato il nostro impegno con l’apertura di un centro per la chirurgia di guerra per i civili che come al solito pagano il prezzo più alto dei conflitti dove l’interesse prevalente è quello di distruggere il nemico e non quello di proteggere la popolazione.

Come si fa ad operare in zone di guerra? Dovete fare degli accordi con i contendenti per poter operare?
Innanzitutto siamo estremamente trasparenti con tutti. Vogliamo essere considerati e rispettati per la nostra neutralità e per il tipo di lavoro che facciamo che è a beneficio delle popolazioni civili colpite dalla guerra. Questo ovviamente è molto difficile da capire dalle parti belligeranti, anzi lo è sempre meno. Mi occupo di queste cose da più di 20 anni e ho visto progressivamente lo spazio umanitario restringersi. Il Sudan non fa eccezione, è difficile gestire la logistica, tante strutture sanitarie sono state occupate e saccheggiate. Stando sul posto da tanti anni siamo riconoscibili per la serietà del lavoro fatto come organizzazione che vuole fornire cure mediche gratuite di qualità senza discriminare nessuno.

In Italia non c’è la guerra ma avete aperto delle strutture sanitarie in alcune città. Perché?
Abbiamo aperti degli ambulatori in Italia dal 2006. Il primo in Sicilia e poi a Marghera. Pensavamo di agevolare l’accesso alle cure soprattutto agli stranieri extracomunitari in difficoltà e invece, anche nel ricco Nord Est, abbiamo incontrato sacche di povertà tra gli italiani che non riescono a curarsi. Ci siamo resi conto che, purtroppo, non viene applicato l’articolo 32 della Costituzione che garantisce le cure soprattutto agli indigenti come diritto della persona e un bene della comunità. Nella pratica accade tutt’altro con il risultato che si sviluppano le stesse logiche della guerra che sono di esclusione. Siamo in tanti regioni con ambulatori fissi e mobili, ovviamente non con l’obiettivo di sostituirci al sistema sanitario nazionale ma con la finalità di superare le tante barriere (burocratiche ed economiche) che ostacolano l’accesso alla salute delle persone in un sistema progressivamente privatizzato che esclude i non abbienti.

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