Elizabeth Vidale: cantare l’anima

Roma, giugno. È delicata nella persona, gentile, veste luminosamente di bianco. L’abito, in questo caso, sembra proprio uno specchio dell’anima. Elizabeth sta interpretando al Teatro dell’Opera la Regina della Notte nel Flauto mozartiano, un personaggio oscuro. È il simbolo del potere – dice convinta – esattamente l’opposto di quello che cerco nella vita, un ruolo che quasi mi fa violenza, per cui cerco di prenderne le distanze. Tuttavia è interessante scoprire un possibile diverso livello interpretativo, perché io la vedo anche come una donna capace di gioire e di soffrire. Un personaggio da cesellare, e mi piacerebbe trovare un regista che ne evidenziasse questi aspetti, senza l’energia negativa che io non desidero avere nella mia vita. Esigente, Elizabeth è aperta a nuove scoperte. Sì – continua – perché ogni giorno ha la sua sorpresa e credo che non ci troviamo sulla buona strada se non si cerca ogni giorno di capire qualcosa. In questo periodo, dopo aver lavorato molto, sento una specie di abbassamento di forza e anche di fede, non faccio le cose per gli altri o per Dio. Ma so che in questi momenti – stamattina mi trovo più fragile – c’è la possibilità di rinascere sempre: la fragilità è la mia arma, perché quando tutto va bene, non c’è luce, mentre è il dolore ciò che fa vedere e crescere. Per esempio, quando in scena mi trovo nella grande conchiglia nel ruolo della Regina, tutto è difficile, mi sento separata dal pubblico, incapace di trasmettere emozioni, bloccata. Però sempre, in quei momenti, mi abbandono totalmente nel donarmi come strumento d’espressione, senza pensare ai dettagli tecnici, per dare la pienezza di vita che ho nell’Ici, nel momento presente. L’istante è la sola cosa che abbiamo, c’è da rimetterla a fuoco, per cui passa l’energia negativa e la mia voce si apre. Non si tratta di un fatto solo tecnico, si raggiunge poi anche uno scopo spirituale. È forte in verità, Elizabeth, di carattere e con una voce dal timbro cristallino. Carriera e formazione vengono da lontano. Madre inglese, dell’aristocrazia parigina, padre spagnolo ti- pico, nasce a Nizza e a tredici anni sta già nella corale dell’organista Pierre Cochereau: la sua voce esce dal coro mentre si esegue il Requiem di Fauré, è naturale indirizzarla ad un maestro di canto, finchè incontra il soprano Mady Mesplé: Hai un lavoro di intelligenza musicale da fare – le consiglia -; devi capire la tua sensibilità, e poi potrai veramente cantare. A sedici anni entra nella scuola di canto dell’Opéra di Parigi, sotto la cura dell’ottima insegnante Elizabeth Grummer. È all’Opéra che ho conosciuto mio marito André (Cognet, baritono di fama, ndr): è tutto il mio contrario. Io estroversa, lui riservato, vuole capire il perché delle cose, anche nel canto mi ha aiutato ad acquistare maggior morbidezza. La vita con lui è tanto ricca. Quando sono lontana, m i sembra di trovarmi in un altro mondo, per cui ora sceglieremo contratti che ci fanno lavorare insieme, come pure i dischi che incidiamo su lavori di autori poco conosciuti (come D’amour et de nostalgie, rarità di Gounod, Bemberg, Massenet, Delibes…, ndr), di cui c’è un enorme patrimonio in Francia. Dopo l’esordio a sedici anni a Digione come Sophie nel Werther, Elizabeth entra nella compagnia di canto del teatro di Lione, collabora con grossi nomi come il direttore Gardiner, partecipa a festival come Aix-en- Provence, in Arianna a Naxos e poi spicca il volo per i continenti: gli Usa, almeno una volta l’anno, a Miami, al Lincoln Centre di New York per il Richard Tucker Gala, a Dallas per i Carmina Burana: Dallas è una città simbolica per me – commenta seria – perché vi aveva cantato il grande soprano francese Lily Pons. Mi è capitato di ricevere una telefonata da una sua sorella che diceva: tu sei quella voce simile a Lily che ho cercato per tutta la vita!. Così, il repertorio di Elizabeth spazia dalla Lakmè di Delibes – opera prediletta – alla Thaïss di Massenet, all’Enfant et le sortilège di Ravel (che ha inciso, ndr) a Mozart, ai grandi sconosciuti francesi, ai molti lavori incisi per la casa Opera Rara. Ma come lavora, come opera le sue scelte? Importante è lasciarsi guidare dalla luce – confida con naturalezza -, cosa non facile: nel nostro mestiere c’è tanta gente non buona, e poi la nostra è un’arte effimera, perché l’arte è ici present, l’attimo, il dono di un mezzo per far germogliare negli altri delle piccole cose che forse ho compreso…. E cosa ha capito questa persona così raffinata e pensosa? Beh, che il vero cammino è unire musica e tecnica, e non tanto puntare ad essere riconosciuta, a diventare un personaggio mediatico, perché sarebbe qualcosa di antagonistico. Se viene, è un bel regalo, ma di rincorrerlo il successo mi spiace, mi fa sentire come una pianta troppo esposta al sole, mentre io preferisco l’umidità, l’interiorità. Certo a volte è duro vedere che hanno successo persone che non lo meriterebbero, ma non conta troppo. Quello che amo è poter entrare ad ogni produzione in un mondo nuovo, in un campo di esperienze che mi rinnovano completamente, e poi tornare a casa mia sulla Loira, ai primi dell’estate, e riflettere: è come una rinascita, bisogna prender tempo per rientrare in sé stessi ed è un dolore quando non posso farlo. Ho necessità di progredire sempre ed è per questo meraviglioso il mio mestiere. Un progresso ricco di interiorità. Col canto – si spiega – mi metto nell’atmosfera dell’esistenza di Dio ed il contatto col pubblico fa crescere in me quest’esperienza, e nello stesso tempo mi fa progredire ulteriormente. Non solo lei vuole guardare in avanti, ma insieme al marito cerca di trasmettere il proprio bagaglio umano e artistico ai giovani. Da tre anni con André teniamo un corso di tecnica del canto al Conservatoire National de Rueil Malmaison a Parigi per una ventina di studenti. Io sto crescendo con loro – anche se alcuni insegnanti mi dicono che invece dovrei puntare solo al canto -, ci si vede per tutto l’anno due volte la settimana. Il canto mi riconcilia col corpo che in passato quasi mi faceva paura, lo concepivo soprattutto come istinto. Ora penso il pocontrario: non posso esser solo testa per cantare, deve cantare tutta la mia persona, perché il corpo è insieme allo spirito, un’arma potentissima, e più cerco di aiutare gli altri in questa scoperta – è un gioiello costruito insieme a mio marito – più sento il corpo come un amico, mi aiuta a comprendere meglio le persone. Perché la voce è un dono immenso e io voglio darlo gratuitamente. Sincera, Elizabeth, e libera da gelosie. Con Inva Mula (soprano albanese, ndr) – racconta entusiasta – c’è un’amicizia umana e musicale, perché abbiamo un repertorio diverso, per cui quando cantiamo insieme c’è un arricchimento reciproco. Abbiamo duettato in Mozart e poi lei mi ha fatto il favore di cantare pezzi non adatti al suo timbro, come il duetto dalla Lakmè che piace tanto al pubblico. La nostra conversazione dovrebbe volgere al termine, perché Elizabeth deve recarsi in teatro, ma si prolunga sul filo della confidenza. Stamane – confida – mi trovavo a San Pietro. Sentivo un coro di bambini. Il luogo mi è diventato ancora più sacro, per questo canto che si spandeva per tutta la basilica. Il suono è più importante della parola, più interessante. Ecco perché la musica non può morire: è l’anima della vita

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