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Egitto, Gaza, Israele: intreccio a rischio

di Bruno Cantamessa

Bruno Cantamessa Autore Citta Nuova

Netanyahu ha detto che il governo israeliano ha concesso agli abitanti di Gaza di uscire dalla Striscia attraverso il valico di Rafah, ma l’Egitto si è rifiutato di accoglierli. Perchè l’Egitto tiene serrato il valico di Rafah, mentre il governo israeliano propende per aprirlo?

Giacimento Leviathan EPA/MARC ISRAEL SELLEM / POOL

Intervistato il 5 settembre dal canale di notizie israeliano Telegram Abu Ali Express, Netanyahu ha detto che il governo israeliano ha concesso agli abitanti di Gaza di uscire dalla Striscia attraverso il valico di Rafah, ma l’Egitto si è rifiutato di accoglierli: chi si è presentato è stato addirittura arrestato. Nell’intervista Netanyahu accusa polemicamente le autorità egiziane di «imprigionare contro la loro volontà i residenti di Gaza che vogliono lasciare una zona di Guerra».

Secondo una mia personale interpretazione, così bisogna leggere le affermazioni di Netanyahu: gli egiziani stanno assumendo atteggiamenti disumani intollerabili, mentre il governo israeliano era stato disponibile verso lo sfollamento dei poveri gazawi.

Immediata la replica del Ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdel Atty, che ha ribattuto: «Lo sfollamento [dei gazawi in Egitto] non è un’opzione. Questa è per noi una linea rossa e non lo permetteremo». E il ministro egiziano ha aggiunto: «Lo sfollamento significa l’eliminazione e la fine della questione palestinese. Non esiste alcuna giustificazione legale, morale o etica per allontanare le persone dalla loro patria».

Ben al di là del battibecco dai toni kafkiani, molti osservatori sottolineano che in realtà l’Egitto teme fortemente una mossa israeliana per “sbarazzarsi” di almeno un milione di palestinesi parcheggiandoli nel Sinai egiziano. Per l’Egitto, che naviga economicamente e socialmente in cattive acque, sarebbe una batosta. Senza contare che il Sinai, oltre ad essere un deserto, è notariamente un luogo molto complicato in cui da decenni prosperano, tra beduini ribelli, gruppi salafiti e jihadisti che non hanno in grande simpatia il presidente “militare” Abdel Fattah al-Sisi, nemico giurato dei “Fratelli musulmani”, culla e sponsor iniziale di Hamas.

Al-Sisi, va ricordato, tolse di mezzo nel 2013, con un golpe, il presidente Mohamed Morsi, espressione dei Fratelli musulmani, ed è accusato dai fondamentalisti islamici di essere filo-israeliano.

Nel Sinai ci sono ancora oggi gruppi estremisti affiliati a Daesh (Stato Islamico) che attaccano posti di blocco dell’esercito e infrastrutture militari. Però si sa nulla o ben poco di questa realtà, perché l’area è sottoposta a restrizioni e soprattutto ad un blocco dell’informazione che impedisce a tutti i giornalisti, egiziani e stranieri, di accedervi. E si dice che nel Sinai il governo egiziano negli ultimi anni abbia raso al suolo con metodi molto sbrigativi interi villaggi, nel disperato tentativo di fermare i ribelli.

In questo quadro, il rischio più preoccupante per al-Sisi è forse che l’intera regione possa trasformarsi, con l’insediamento di terroristi infiltrati tra “gli sfollati” palestinesi, in una base per lanciare attacchi contro Israele, mettendo in difficoltà se non in crisi la tenuta del trattato di pace del 1979 fra Israele ed Egitto.

E se dovesse succedere veramente che, spinti e massacrati dall’esercito israeliano, i gazawi sconfinassero nel Sinai? L’Egitto dovrebbe accettare la realtà dei fatti, anche per non mettersi contro, respingendo i palestinesi, tutto il mondo arabo. Forse quello che l’Egitto sta già cercando sotto banco di fare è ottenere garanzie, tramite gli Stati Uniti, sul fatto che lo sconfinamento sia un’operazione temporanea. Ma quando si parla di trasferimento di palestinesi è difficile credere che sia temporaneo, vista l’aria che tira nell’ultra-sionista governo israeliano.

Tanto più che profughi e migranti sono numerosi anche in Egitto: sarebbero 9 milioni i migranti e rifugiati arrivati in Egitto senza scafisti, semplicemente a piedi da sud. Aggiungere uno o due milioni di palestinesi sarebbe un disastro ingestibile. E addirittura pericoloso per la tenuta del regime egiziano.

Va anche aggiunto un altro elemento non trascurabile in questa selva di contraddizioni: all’inizio di agosto è stato annunciato un accordo stratosferico da 35 miliardi di dollari che legherà l’Egitto fino al 2040 al gas israeliano del giacimento offshore Leviathan. L’impegno preso dall’Egitto è di importare 130 miliardi di metri cubi di gas, fra l’altro ad un prezzo maggiorato. Evidentemente il deficit energetico egiziano, in crescita da tempo, ha superato una soglia che non consente altre mosse se non la pericolosa dipendenza dal gas israeliano. Anche perché il mitico giacimento Zohr scoperto nel 2015 nel Mediterraneo, in acque egiziane, ha da sempre seri problemi tecnici e finora non si è mai avviato completamente. Mettendo in imbarazzo anche l’italiana Eni che lo gestisce.

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