Edouard Philippe messo alla porta

Dopo la sconfitta alle municipali, Macron cambia il primo ministro. Manovra di lungimiranza o di tattica? L’ex-primo ministro è un presidente in pectore.

Allorché si parla della politica d’Oltralpe non bisogna mai dimenticare che si sta parlando di una repubblica presidenziale, eredità di una ricchissima tradizione totalmente diversa dalla nostra, con un passato monarchico di grandeur e ricchezza, passato al bagno in una democrazia parlamentare e in un sogno di una società dei diritti individuali. Dopo la Seconda guerra mondiale i presidenti hanno voluto ognuno a modo suo incarnare queste prerogative “franco-francesi”, che differiscono dalle altre democrazie europee come la nostra, decisamente più parlamentari. De Gaulle si è scontrato orgogliosamente con la rivoluzione del ’68; Pompidou non ha avuto nemmeno il tempo di mettere il suo sigillo; Mitterrand ha incarnato in Africa una politica vetero-imperialista; Giscard d’Estaing s’è battuto per una laicità a-cristiana; Chirac ha incarnato l’uomo dal basso che raggiunge la vetta permettendosi di tutto; Sarkozy ha barattato la Libia per un piatto di lenticchie che gli si è rovesciato addosso; Hollande ha eliminato nella crisi del Bataclan il terzo principio della rivoluzione francese, la fraternità; Macron ha riportato in auge un certo atteggiamento di Luigi XIV, distaccato dal popolo e altezzoso, pur dovendo affrontare la crisi di senso dei gilet jaune e poi la crisi sociale del coronavirus.

Tutti loro hanno avuto dei “primi ministri” – guai a chiamarli “presidente del consiglio dei ministri” – come primi loro collaboratori e, alla bisogna, come fusibili. Accade di nuovo con Edouard Philippe, il primo ministro “intellettuale”, autori di alcuni libri di valore, come L’heure de vérité (L’ora della verità) e Dans l’ombre (Nell’ombra). Uno spirito aperto e rispettoso. Ma accade che Macron – ancora vittima di sondaggi impietosi – sia ora costretto a correre un serio rischio rimandando a casa il suo primo collaboratore. Il Paese sta infatti attraversando un momento difficile, come tutta l’Europa d’altronde, nella ripartenza sperata. Il presidente ha nominato Jean Castex, un tecnocrate 55enne, ex segretario di Nicolas Sarkozy che negli ultimi mesi ha gestito con relativo successo, nel ruolo di Monsieur déconfinement, l’uscita della Francia dal lockdown. La reazione all’onda verde delle elezioni locali inizia così un po’ a sorpresa con un rimpasto che consegna le redini del nuovo «governo da combattimento», come l’ha definito lo stesso Macron, a un uomo di destra, come il suo predecessore d’altronde, che però aveva un passato piuttosto di sinistra e un’indubbia sensibilità sociale.

Ma c’è un ma. L’allontanamento colpisce un uomo politico dal percorso complesso ma coerente, che è rimasto sempre fedele a Macron, che ha aiutato, nei momenti più critici per le crisi dei gilet jaune e del coronavirus, ad assorbire i colpi (la resilienza sembra una sua dote), ottenendo in questo modo maggiori tassi di gradimento da parte dei cittadini rispetto al presidente. Decisamente Philippe appare più simpatico e vicino di Macron. Per giunta esce da vincitore nelle ultime elezioni, avendo conquistato la città di Le Havre, strappandola ai comunisti storicamente padroni della città operaia, contrastando così la tendenza generale che ha portato i Verdi a conquistare grandi città francesi come Bordeaux, Strasburgo, Poitiers… Ora Philippe potrà “studiare da presidente”, dedicandosi alla sua città da primo e non più da subalterno, e potrà così costruire una sua politica e una sua immagine presidenziale. E non è detto che non riesca nell’impresa di sconfiggere il suo anfitrione nelle prossime elezioni presidenziali francesi del 2022. La partita è lanciata, cinica al solito, senza esclusione di colpi e lobbistica. Ma anche “alta”: la Francia, a differenza di tanti altri Paesi europei che votano solo con la pancia o con il portafogli, elegge chi sa farla sognare coi piedi per terra, elegge chi “ha una visione”, chi ha idee valide, anche culturalmente parlando. Il Paese dei vini, dei formaggi, come della laicità e dei diritti, è ancora una guida per tanti europei. Scriveva Edouard Philippe in Des hommes qui lisent (Degli uomini che leggono): «Amo Roma. Amo la storia romana, che mi appassiona. La storia di una piccola città che costruirà un impero immenso, duraturo, integrato. Un’epopea politica, militare, amministrativa e culturale». Ricordatevi del suo nome, da Le Havre a Parigi.

 

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