Economia, Stati Generali e Keynes

Intervista agli autori del sito Kritica economica. Un contributo al dibattito sulle scelte strategiche del nostro Paese a partire dalla lezione del grande economista inglese John Maynard Keynes
Keynes e politica sociale. Protesta sindacale Roberto Monaldo / LaPresse

Le scelte di politica economica che l’Italia deve compiere in questi giorni necessiterebbero di un dibattito adeguato e diffuso. È quello che ha iniziato a stimolare, in piena pandemia, un gruppo di studenti universitari e giovani ricercatori con il sito Kritica economica. Una serie di analisi e dialoghi on line accessibili e orientati, appunto, ad un approccio “critico” verso il pensiero prevalente in economia.
Abbiamo già sentito il parere del think tank Tortuga, giovani economisti provenienti dalla Bocconi e direttamente collegati con tale ateneo.

Vogliamo ora conoscere il punto di vista dei promotori di Kritica economica, alcuni dei quali studiano nella stessa università milanese. Le loro risposte sono il frutto del lavoro comune di Alessandro Bonetti, Andrea Muratore, Edoardo Sala, Ivan Giovi, Luca Giangregorio, Matteo Nepi e Matteo Lipparini

Per quale motivo coltivate un pensiero critico verso la corrente prevalente in economia ?
Innanzi tutto, l’economia è una scienza sociale e, come tale, non è in grado di proporre soluzioni certamente vere. Ciononostante, a partire dagli anni ‘70, ha voluto costruirsi una reputazione più vicina possibile ad una scienza naturale. Questa tendenza è andata di pari passo con l’imposizione del pensiero mainstream come “senso comune”. A nostro parere, invece, senso comune deve essere la pluralità degli approcci: non intendiamo squalificare come irrazionali le tesi opposte alle nostre, ma confrontarci con esse. La consapevolezza degli errori dell’approccio mainstream è emersa in seguito alla grande recessione e al fallimento delle politiche di austerità.
Non siete i soli …
Già, questa presa di coscienza è avvenuta anche in alcuni fra i più riconosciuti pensatori ortodossi, come il premio Nobel Paul Romer o Olivier Blanchard, capo economista del Fmi.
La consapevolezza di alcuni problemi del pensiero economico dominante, e del suo approccio alla conoscenza scientifica, è già presente tra gli accademici. Ma non si è ancora arrivati a dire che la realtà non può essere rappresentata solo con strumenti semplicistici come le funzioni di utilità e i modelli finora adottati per definire le misure di politica economica (cioè i modelli Dsge che sta per “modelli dinamici stocastici di equilibrio generale”).  Limitare l’insegnamento e lo studio dell’economia alla sola teoria prevalente suona come un tentativo di resistenza ideologica ad un cambiamento già in atto. Sviluppare un pensiero critico coerente verso tale  impalcatura di pensiero ci sembra un atto di onestà intellettuale.

Entrando nel dettaglio, quale è il vostro parere complessivo sul piano Colao?
Quello che doveva essere un “piano tecnico” sviluppato dai maggiori esperti e competenti si è rivelato, a nostro parere, un totale fallimento. Ci si sarebbe aspettati delle stime quantitative sugli impatti e sulle fonti di finanziamento delle misure economiche proposte, ma nulla di ciò è presente nel piano Colao. Esso è piuttosto una richiesta di assistenzialismo statale da parte del capitale privato, in modo tale che esso possa preservare la propria quota profitti. Non a caso molte delle misure proposte tentano di scaricare i costi della crisi sul fattore lavoro.

Ad esempio?
L’idea di derogare al decreto dignità rientra proprio nell’ottica di scaricare sui salari e sul lavoro i costi maggiori, pensando così di poter rilanciare l’occupazione, nonostante decenni di evidenza empirica smentiscano tale relazione. Sempre in un’ottica di assistenzialismo al capitale, ma non al reddito da lavoro, rientrano anche tutti gli altri punti del piano tecnico. Dall’esclusione dello Stato negli interventi di ammodernamento infrastrutturale, al turismo come “brand di Paese” nonostante l’alta intensità di sfruttamento e il basso valore aggiunto nel settore, sino alla visione dell’educazione come esclusivamente strumentale ad ottenere un’occupazione. Insomma, è un piano senza lavoro e soprattutto senza Stato, relegato alla funzione di semplice facilitatore della produzione e dei profitti privati. Ma la responsabilità peggiore è di chi ha voluto delegare l’indirizzo politico a una task force dallo spirito manageriale.

Come avete accolto i lavori degli Stati Generali? E che risultati vi aspettate dal piano di rilancio in elaborazione da parte del governo?
Gli Stati generali hanno rappresentato non solo una semplice passerella, ma anche un enorme fallimento politico. Nonostante in questi mesi le baruffe dei virologi ci abbiano mostrato che non si può rimpiazzare la politica con la tecnica, siamo ancora fermi all’idea che esista una competenza astratta e indipendente dagli interessi di parte (e di classe). E se non si riescono a mettere d’accordo i medici, figuriamoci gli economisti e gli altri “esperti”. Noi rifiutiamo il mito tecnocratico secondo cui si possono proporre “politiche” senza una vera politica, e allo stesso tempo rifiutiamo la logica populista per cui si può fare politica senza proporre “politiche” di ampio respiro. Il problema è che non esiste più una classe intellettuale organica ai partiti. Questa ragione, insieme alle forti riserve che abbiamo rispetto al piano Colao, ci rende quantomeno dubbiosi sul piano di rilancio elaborato dal governo. Temiamo che sarà ancora prigioniero delle vecchie logiche mercatiste e liberiste.
Che idea avete del ricorso al Mes da parte dell’Italia?
Il ricorso al MES non è inevitabile a nostro avviso. I 36 miliardi dipinti come un prestito senza condizioni a un tasso d’interesse molto conveniente sono in realtà il “cavallo di Troia” attraverso il quale il nostro Paese rischierebbe un ulteriore commissariamento della propria politica economica. I margini di manovra oggi sono già ristretti. Ricorrere al Mes significherebbe ridurli ulteriormente, sottoponendo l’Italia alla valutazione del rischio di solvibilità e alla conseguente richiesta di azioni volte a ridurre tale rischio, ossia un programma di aggiustamento macroeconomico e strutturale che potrebbe essere molto pesante. Ricordiamo infatti che la celeberrima “assenza di condizionalità” riguarda l’accesso alla linea di credito per spese sanitarie, non ciò che avviene una volta “dentro” il Mes. Le condizionalità ex post rimangono tutte e discendono dalle norme dei vigenti trattati europei e internazionali. A conferma di ciò, a oggi nessuno degli altri Paesi che otterrebbe un risparmio in termini di spesa per interessi vi ha fatto ricorso. Forse anche perché il ricorso al Mes comporterebbe un privilegio sul debito contratto verso di esso e quindi un pregiudizio per il restante debito nazionale (i titoli detenuti da risparmiatori e banche, per intenderci).

Cosa comporta il vostro programmatico riferimento al pensiero dell’economista John Maynard Keynes?  
Il riferimento esplicito al pensiero di Keynes (1883-1946) esprime la natura eterodossa della nostra formazione e della nostra azione divulgativa. Per noi Keynes non è un feticcio, ma un punto di riferimento imprescindibile. Simboleggia l’apertura al pensiero critico ma non settario. Di Keynes ci piace anche l’irriverenza che egli manifestò negli attacchi al pensiero dominante della sua epoca. Ispirarsi a Keynes oggi significa riappropriarsi delle sue idee, tornate alla ribalta per la loro concretezza. È bene ricordare la più importante e radicale di esse, ossia l’inefficienza del mercato nella soluzione di quello che Keynes definiva il male peggiore della società: la “disoccupazione di massa”. Ma pensiamo anche ad altre proposte attuali, come la necessità di una politica di “socializzazione degli investimenti” o di una spesa in deficit orientata proprio agli investimenti.

Qui i contributi al dialogo sul piano di rilancio dell’economia italiana

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