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Economia di guerra e insicurezza, intervista a Giulio Marcon

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Come ogni anno, il rapporto di Sbilanciamoci entra nel dettaglio delle scelte politiche che orientano gli investimenti e le scelte di finanza pubblica, indicando le alternative possibili nel segno della pace e della conversione ecologica. Un dilemma centrale nel dibattito pubblico sul piano di riarmo in atto

Industria delle armi . EPA/JIM LO SCALZO

Deve avere molta pazienza Giulio Marcon, coordinatore della Campagna Sbilanciamoci, quando durante i dibattiti in tv si accusano i pacifisti di non proporre alternative all’imperativo del riarmo come leva di crescita del Paese, oltre che necessaria scelta strategica dovuta alla nostra collocazione occidentale.

L’economista Marcon è, infatti, una delle voci più autorevoli nel dibattito sulle politiche di difesa in Italia e coordina da anni un lavoro minuzioso nella redazione di una legge finanziaria rigorosa improntata a scelte di un’economia di pace e conversione ecologica, che spesso neanche l’opposizione parlamentare di centrosinistra mostra di conoscere.

Questa intervista prende lo spunto dal recente e incisivo intervento tenuto da Marcon durante la conferenza euromediterranea di Cagliari in cui ha tracciato un quadro della crescente militarizzazione dell’economia e della politica in Italia.

Giulio Marcon, nel suo intervento di Cagliari, avvenuto a pochi giorni dalla presentazione alla sala stampa del Senato, del rapporto. Sbilanciamoci, ha parlato di una “politica di riarmo” che appare inarrestabile. Quali sono, a suo parere, le ragioni che spingono in tale direzione?
Nel lessico della geopolitica tradizionale, l’equazione è semplice: più armi equivalgono a più sicurezza. Eppure, nel XXI secolo, questa certezza si sta sgretolando di fronte a un paradosso sempre più evidente: la corsa agli armamenti, lungi dal garantire la pace, sta diventando il principale acceleratore dell’insicurezza globale, alimentando tensioni e aumentando il rischio di conflitti catastrofici.

Più armi più insicurezza? Ma questa affermazione, non va contro l’evidenza comune?
Si tratta di un fenomeno noto in scienze politiche come il “dilemma della sicurezza”. Una politica di riarmo alimenta un ciclo di competizione e sfiducia tra le nazioni. Ogni attore si sente minacciato dall’aumento della potenza militare altrui e reagisce potenziando a sua volta il proprio arsenale. Si innesca così una spirale che, invece di aumentare la stabilità, rende il conflitto un’opzione sempre più probabile. È questa la dinamica che l’Europa sta rischiando di imboccare.

La legittimazione politica di una spesa militare in crescita esponenziale si fonda, spesso, sull’idea di un settore bellico come garanzia di occupazione…
Anche qui, contrariamente alla credenza comune, seri studi in materia dimostrano che investire in settori come l’istruzione, l’ambiente o la sanità genera un numero di posti di lavoro enormemente superiore rispetto a un investimento equivalente nel comparto della difesa. Questo punto è cruciale: la scelta di dove allocare il denaro pubblico non è solo una questione strategica, ma è una decisione fondamentale su quale tipo di società e di economia intendiamo costruire.

Può fare un esempio?
Le scelte di bilancio rivelano le vere priorità di un governo, e in Italia il confronto tra l’aumento previsto per le spese militari e quello destinato alla sanità pubblica è una deliberata dichiarazione di priorità politiche. Nei prossimi anni, si pianifica un incremento della spesa militare per circa 23-24 miliardi di euro. Nello stesso periodo, l’aumento previsto per il Fondo Sanitario Nazionale è di soli 2,4 miliardi, una cifra che a malapena riesce a coprire l’impatto dell’inflazione. Il rapporto è scioccante: per ogni euro in più destinato alla sanità, se ne pianificano dieci per le spese militari.

Nel rapporto si definiscono inoltre le spese in armi come improduttive. Cosa vuol dire in concreto?
Vuol dire che, oltre a sottrarre risorse vitali, la spesa militare distorce la natura stessa dell’economia. Se si investe, ad esempio, in una macchina utensile o in un telaio, questi beni creano valore aggiunto producendo altri beni. Al contrario, un investimento in un’arma, come un bazooka, non crea alcun valore economico ulteriore: il suo scopo ultimo è la distruzione, che è l’esatto opposto della creazione di ricchezza.

Questa teoria economica non è un’astrazione accademica; è la cronaca precisa della politica industriale italiana degli ultimi decenni, incarnata dalla traiettoria di Leonardo, il nostro principale gruppo della difesa. Controllata per circa il 30% dallo Stato attraverso il Ministero dell’Economia, l’azienda ha progressivamente abbandonato le sue produzioni civili (come le locomotive per l’alta velocità o le turbine) per concentrarsi sul settore militare non in base ad una dinamica di mercato, ma in forza di una precisa scelta politica.

Nel rapporto si pone in evidenza l’impatto ambientale, di solito trascurato, dell’investimento in armi. Di cosa si tratta?
Parliamo di un costo che rimane quasi sempre invisibile nel dibattito pubblico. Un recente rapporto internazionale sull’impatto delle attività militari ha evidenziato dati allarmanti. Uno, da solo, è sufficiente a illustrare la portata del problema: una singola ora di volo di un caccia F-35 produce la stessa quantità di emissioni di CO2 di una persona che guida un’automobile per 100 mila chilometri, l’equivalente di circa due anni e mezzo di utilizzo medio. Mentre ai cittadini si chiedono sacrifici quotidiani per la transizione ecologica, lo Stato finanzia un settore la cui impronta di carbonio, operando al di fuori di ogni accordo sul clima, vanifica questi stessi sforzi.

Quale logica muove la presentazione reiterata ogni anno del rapporto Sbilanciamoci, che entra nel dettaglio della legge di Bilancio?
La necessità di poter dire che l’alternativa all’economia di guerra non è un’utopia, ma una scelta strategica. Si tratta di un bivio politico ed economico che deve essere collocato al centro del confronto democratico: vogliamo continuare a investire in strumenti di distruzione? O riconvertire le immense risorse tecnologiche, umane e finanziarie del comparto militare per affrontare le crisi reali del nostro tempo, dalla transizione ecologica alla sanità pubblica?

 

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