E la notte canta

Il successo – spropositato – di Jon Fosse, celebrato autore norvegese, lo si deve forse al riconoscersi, in più latitudini del mondo, nella sua scrittura immediata, senza orpelli metaforici né analisi psicologiche. O forse perché esprime una drammaturgia del disagio, del disincanto, della solitudine, dell’emarginazione che nasce da una quotidianità raggelata, da un’attenzione da entomologo ai comportamenti dei personaggi nei quali ci riconosciamo. Le situazioni che egli descrive non sono mai liberatorie o compiacenti, ma tendono a narrare la deriva delle relazioni familiari soprattutto nel nord Europa. Piaccia o meno, sta di fatto che già da qualche anno i suoi testi sono tradotti e messi in scena in vari Paesi del mondo. In Italia è ora Valerio Binasco, nel doppio ruolo di regista e attore, ad allestire E la notte canta, pièce sull’instabilità di una coppia, tra frustrazione e paranoia. In uno scarno interno domestico, attraverso minuscoli accadimenti, pause e silenzi, assistiamo al deteriorarsi di un rapporto che si regge su una comunicazione inespressa, laconica, sfuggente. E dove – notiamo nel testo – l’assenza della parola amore ne sancisce la sua imprescindibile necessità. La notte del titolo sembra infatti essere quella del sentimento mancato, sfuggito e non alimentato. Lui – scrittore fallito, apatico, sempre sul divano a leggere – e lei che lo blandisce, lo sprona ad uscire, a parlare. Risolta a lasciarlo per un altro uomo, ma poi indecisa per l’affezione al debole marito, non sapremo se lo abbandonerà davvero perché succede qualcosa di tragico che ne sospende la decisione. La scrittura di Fosse, scarna e con battute e situazioni a tratti ironiche – l’arrivo dei surreali genitori è esilarante – è costruita con frasi comuni, tempi dilatati e soprattutto ripetizioni martellanti che però, alla lunga, risultano insopportabili all’ascolto. I due interpreti principali sono bravi – la recitazione flemmatica di Binasco si addice al personaggio, perché tutta giocata su movimenti naturalistici, sul non detto, sulle lievi sfumature espressive del volto e dei gesti -; ma sentire l’accento francese di Frédérique Loliée, peraltro spesso urlato, crea uno sbilanciamento nel rapporto tra i due, anche per lo stile recitativo. GLI UOMINI NEL POLLAIO Opera geniale di Edmond Rostand del 1910, divertentissima e romantica; con uomini-pennuti dai costumi di differenti epoche, Chantecler non è mai stato allestito in Italia. Rappresenta, quindi, un evento la messa in scena di Armando Pugliese per lo Stabile di Catania vincitore di tre premi Olimpici. Metafora di una condizione sociale attualissima, Chantecler è il nome del gallo che pensa di far sorgere il sole e invece si accorgerà che sveglia solo la gente oppressa. Nel cortile dove razzolano gallinacei, al quale succede l’aia della festa settecentesca della faraona, si muove, con impressionante movimento di volatili, una variegata fauna di innamorati, arroganti, invidiosi, litigiosi e utopisti, che fanno il verso ai meccanismi delle relazioni umane. La forza dello spettacolo, oltre alla magnifica prova dei trenta attori e musicisti, alle scene e ai costumi sontuosi, sta soprattutto nella colorata rielaborazione di Enzo Moscato, che ha infarcito il testo di dialetti nostrani, di citazioni colte, di allusione all’oggi. All’Argentina di Roma.

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