Due secoli di raccolta del tè in Sri Lanka

Un Paese poco conosciuto in Europa. Appare sui siti per vacanze o per situazioni estreme, come lo tsunami del 2006, gli attentati in alcune chiese cristiane di qualche anno fa o il default economico in tempi recenti. Anche la tremenda guerra civile che ha insanguinato l’isola non ha fatto grande notizia in Europa
Sri Lanka

Per chi viaggia nell’isola di Sri Lanka (Ceylon fino al 1972), lasciando le spiagge spesso ancora incontaminate e salendo verso le colline (montagne per i locali) si trovano le piantagioni di tè. Distese di colline lussureggianti con diverse tonalità di verde, in cui spiccano le piante dalle foglie preziose. Paesaggi, in un certo senso, simili a quelli delle colline italiane coperte di vigneti. 

Altrettanto forte è però la vista di centinaia di donne – non di rado con i loro bambini infanti legati al seno – che raccolgono le foglie di queste piante e se le buttano alle spalle a riempire una gerla che spesso tengono legata alla testa e, qualche volta, sulle spalle. Un lavoro massacrante, tipicamente femminile ma con la presenza anche di uomini, per un’industria tra le più ricche al mondo, alla quale hanno dato vita circa duecento anni fa gli inglesi, durante la colonizzazione operata dalla Compagnia delle Indie Orientali e poi dal controllo militare ed amministrativo britannico, a partire dalla seconda metà del XIX secolo. 

Oggi, a duecento anni di distanza, quella dei raccoglitori di foglie da cui, dopo un delicato processo, si ottengono le famose “cup of tea”, rappresenta una moderna forma di schiavitù che si perpetua nel tempo, senza che molto sia cambiato. Questi lavoratori – soprattutto lavoratrici – delle piantagioni di tè sono praticamente tutti di origine tamil, trasferiti dalla Compagnia delle Indie Orientali nell’isola dell’Oceano Indiano dalla regione del Tamil Nadu, nel sud-est del sub-continente indiano. Il processo iniziò nel 1823 e, per questo, si compiono quest’anno i duecento anni di questo fenomeno per lo più sconosciuto in occidente, dove tanto si parla di diritti umani. 

I tamil trasferiti in massa dalla regione di origine a Ceylon – questo era il nome con cui si conosceva l’isola fino all’indipendenza – erano di casta bassa e diventarono noti come i Thottakattan, barbari delle piantagioni. Questo il nome che la popolazione tamil già residente in Sri Lanka, appartenente alla casta alta dei Vellalars, usava per riferirsi ai nuovi arrivati. Si evidenziava con questo la differenza castale – per altro già presente in India – che relegava i raccoglitori di tè a una vita di schiavitù. 

Alcuni anni fa il governo aveva stabilito che il salario giornaliero dei lavoratori delle piantagioni dovesse essere di mille rupie. Purtroppo, molti si sono trovati a vivere con una riduzione delle giornate lavorative, un escamotage usato dalle compagnie di produzione del tè per fa sì che ai lavoratori venga retribuita la stessa misera somma come salario. Inoltre, sebbene amministrazioni passate abbiano provveduto a costruire circa 40 mila nuove case per i tamil delle piantagioni, molte di esse non sono state ancora consegnate. Dunque, la situazione di questa fetta di popolazione dell’isola resta precaria e problematica. 

In occasione del secondo centenario dall’inizio del processo di trasferimento di popolazione tamil da parte delle autorità coloniali, la Conferenza episcopale del Paese ha lanciato un appello al governo affinché si adoperi a promuovere iniziative e soluzioni per garantire una crescente dignità umana a questa fetta della popolazione del Paese, che continua ad essere retribuita con salari minimali ed a vivere in condizioni tutt’altro che umane. In particolare, i vescovi delle diocesi in cui si trovano queste piantagioni, nelle zone interne dell’isola Kurunegala, Kandy, Badulla, Galle e Ratnapura –, mettono in evidenza i gravi problemi tuttora affrontati da queste popolazioni in settori come l’istruzione, la sanità, i mezzi di sussistenza, le abitazioni, il diritto alla terra, nonché la tutela del patrimonio culturale delle comunità. 

Nel corso di una conferenza stampa, il card. Ranjith, arcivescovo di Colombo, e mons. Gnanapragasam, vescovo di etnia tamil di Jaffna (capitale della regione settentrionale del Paese ed epicentro della guerra civile terminata una decina di anni fa), hanno messo in evidenza come le popolazioni delle colline, che raccolgono tè, siano state le prime vittime duecento anni fa di una forma di schiavitù che va avanti ancora oggi. 

Nel 2023, questa gente non riceve un salario adeguato e le aziende li sfruttano allo stesso modo in cui lo erano due secoli fa. I vescovi dello Sri Lanka sono particolarmente sensibili alla questione dei lavoratori perché una buona percentuale di essi è cattolica ed è assistita dalla locale Caritas con mezzi che la precaria situazione economica generale del Paese limita fortemente. Ma non si tratta di assicurare solo aiuti economici. È necessario che il governo capisca a fondo lo stile di vita di queste persone, che sacrificano il proprio lavoro e le proprie vite per un misero stipendio. Moltissimi raccoglitori di tè vivono ancora in campi appositi, dove le condizioni di vita non permettono alla gente di sollevarsi dalla situazione in cui si trovano. 

L’appello dei vescovi al governo e all’amministrazione pubblica è quello di adoperarsi per fare in modo che l’anniversario dei due secoli trascorsi dai primi trasferimenti di tamil verso le piantagioni di tè possano segnare dei concreti passi in avanti che permettano loro di vivere come cittadini dello Sri Lanka, con il rispetto che meritano.  

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