I due punti caldi del pianeta

L’analista Darius Shahtahmasebi individua due luoghi contesi tra la potenza cinese e quella statunitense: il Mar cinese meridionale e lo Stretto di Taiwan
L'interno della portaerei Ronald Reagan a Hong Kong.

Darius Shahtahmasebi, noto analista politico, la sa lunga sulle vicende politiche internazionali. Un suo articolo apparso su rt.com lo scorso 8 novembre, ha suscitato numerosi commenti tra gli esperti del settore: secondo il politologo, che vive in Nuova Zelanda, la Terza guerra mondiale inizierà al massimo entro 15 anni, ed avrà come teatro l’Asia. I grandi protagonisti, Cina e Usa, si stanno preparando da tempo all’evento. Il primo di questi “punti caldi” sarebbe il Mar cinese meridionale, cioè quel lungo tratto di mare conteso tra Cina, Taiwan, Malaysia, Filippine, Vietnam e Brunei (con l’aggiunta degli Stati Uniti, nonostante siano a circa 10 mila km di distanza). Il secondo sarebbe lo stretto di Taiwan, “Isola ribelle” per Pechino, potente strumento che gli Usa sfruttano da sempre per la politica cosidetta “di contenimento” dell’“Impero di mezzo”, cioè della Cina popolare.

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Da una parte abbiamo quindi la Cina, che dal luglio 2014 è la prima economia del mondo per volume d’esportazioni: un primato schiacciante se si pensa che il primo mercato per le merci cinesi sono proprio gli Usa. Cosa significa? Che l’eccedenza tra le esportazioni e le importazione tra Usa e Cina, qualcosa come 370-380 miliardi di dollari all’anno, finisce nell’attivo della bilancia commerciale cinese. Una cifra da capogiro, che permette ai cinesi di investire enormi somme di denaro un po’ in tutto il mondo. Tutto questo si trasforma in liquidità da parte della People Bank of China. Il governo di Pechino continua a convertire gran parte di questa eccedenza monetaria in titoli di Stato statunitensi, in pratica sta finanziando i governi a stelle e strisce. Al momento la Cina ha una politica di collaborazione commerciale con tutte le nazioni in Asia (oltre che in Africa e nel sud America). Soprattutto con le nazioni più povere della regione, come la Cambogia o il Myanmar, adotta una politica d’investimenti a tassi zero, attraendo le simpatie dei governi locali, che possono così attingere a una fonte di credito illimitata con la Cina senza dover firmare accordi che strozzerebbero o vincolerebbero le loro economie attraverso il Fondo monetario internazionale. La politica cinese, quella di un unico sistema di comunicazioni mondiale che colleghi tutti i continenti con la Cina, sta spiazzando i vecchi “colonizzatori” occidentali, che sono a loro volta indebitati con la Cina in quanto hanno spostato in Asia la produzione di troppi dei loro prodotti di uso giornaliero.

Ecco, in termini semplificati, forse troppo, le ragioni della guerra commerciale con la Cina avviata dagli Stati Uniti: da un lato gli Usa se ne servono come base produttiva dei loro prodotti, che poi a loro volta esportano in tutto il mondo a prezzi vantaggiosissimi; da un altro lato gli Stati Uniti vogliono contenere il dragone cinese che ha troppa liquidità nelle sue banche, screditando Pechino di fronte all’opinione pubblica mondiale. Dal punto di vista militare, certi ambienti statunitensi guerrafondai cercano di costringere la tigre cinese alla lotta, facendo transitare le navi da guerra statunitensi sia nello stretto di Taiwan (troppo vicino alla costa cinese) che nel Mar cinese meridionale, vicinissimo agli isolotti contesi Paracles e Spratly per esempio. Val forse la pena di ricordare, a questo proposito, che la Cina ha una sola base militare fuori dai suoi territori, a Gibuti. Gli Usa, invece, hanno superato ampiamente la cifra pazzesca e mille basi o installazioni militari fuori dai loro territori. In questo momento, il 60% della flotta statunitense naviga in Asia: e non è poca cosa.

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Cosa fa la Cina, di fronte all’arroganza a stelle e strisce? Gioca la pacificazione, almeno in apparenza. Così, notizia di questi ultimi giorni, Pechino ha dato il permesso alla portaerei Ronald Reagan, al suo gruppo di attacco e ad altre tre navi da guerra, ormeggiate in genere a Yokusuka in Giappone, di attraccare al porto di Hong Kong. Un permesso senza precedenti, se si pensa che tale permesso fu rifiutato nel 2016 e che i mesi scorsi hanno visto navi da guerra cinesi e statunitensi quasi confrontarsi militarmente sia nello Stretto di Taiwan che nel Mar cinese meridionale. La Cina preferisce pensare al commercio piuttosto che alla guerra (pur essendo in grado di affrontare un conflitto) e il permesso di attracco delle navi ad Hong Kong è un chiaro segnale di collaborazione.

Darius Shahtahmasebi conclude il suo articolo così: «Attenzione, perché le guerre commerciali finiscono, presto o tardi con una guerra di sangue». Vogliamo sperare che ciò non accada e che prevalga il buon senso, magari il semplice senso degli affari, e la consapevolezza dei danni irreparabili delle guerre.

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