Nella Bibbia le donne profeta non hanno grande rilievo. Non ci sono libri ad esse attribuiti. Nell’Antico Testamento solo cinque donne sono esplicitamente chiamate nebi’ah, profetesse.
Miriam, sorella di Mosè; Debora, che è anche giudice in Israele; Culda, l’unica profetessa di cui nella Bibbia sia custodito un oracolo, e la cui tomba, si dice, sta in cima al Monte degli Ulivi; Noadia, che il governatore Neemia considera una falsa profetessa, perché in contrasto con lui; la profetessa anonima moglie di Isaia (due profeti in casa!), che per rendere tangibile un terribile oracolo del Signore, genera un figlio che i due genitori chiamano Maher-salal-cas-baz, bottino-pronto-saccheggio-prossimo, un nome che dice tutto, ma che avrà creato un certo imbarazzo al piccolo.
La tradizione rabbinica considera altre quattro profetesse: Sara, moglie di Abramo; Anna, mamma del profeta Samuele; Abigail, una delle mogli di Davide; Ester, regina nell’harem di Artaserse.
Nel Nuovo Testamento le profetesse numericamente sono ancora meno: l’anziana Anna, che incontra al tempio il bambino Gesù, e le quattro figlie dell’evangelista Filippo di Cesarea.
Eppure, sebbene poche, le profetesse nella Bibbia ci sono, e se alcune sono state nominate è plausibile che ce ne fossero anche altre.
Proviamo a conoscerne due: Miriam e Debora. Miriam è la sorella maggiore di Mosè. Fin da piccola dimostra una intraprendenza notevole. È lei a salvare il fratellino deposto nel cesto sul Nilo. Senza il suo gesto la grande storia della Torah, la legge data a Mosè sul Sinai, non ci sarebbe stata.
É lei che, avendo seguito il cestino nascosta fra le canne in riva al fiume, si fa avanti e chiede alla figlia del faraone: «Devo andare a chiamarti una nutrice tra le donne ebree perché allatti per te il bambino?». Miriam è la prima donna che la Bibbia chiama esplicitamente profetessa, dopo la miracolosa traversata del mare degli ebrei, quando le acque travolsero l’esercito del faraone.
In quell’occasione lei prese in mano un tamburello e, seguita da altre donne, si mise a danzare e a intonare un canto che oggi sarebbe certamente bollato come non politically correct: «Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare!». Ma erano altri tempi, allora si gioiva ed esultava apertamente per la morte del nemico. Ai nostri tempi in genere si ha più ritegno, almeno pubblicamente.
Ma c’è un altro fatto in cui emerge la figura di Miriam. Mosè, contrariamente alle disposizioni date da Dio, sposa una donna etiope. Miriam, insieme al fratello Aronne, coglie l’occasione per attaccarlo. Però non gli contesta solo quel matrimonio, ma la sua stessa autorità: «Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?».
Da questo fatto si evince che Miriam dimostra una grande consapevolezza del suo ruolo profetico, e si può anche cogliere la nascente tensione – che attraverserà tutta la storia della religione – fra profezia (Miriam), sacerdozio (Aronne) e guida politica e religiosa (Mosè). Dio interviene direttamente nella vicenda difendendo a spada tratta il suo eletto e amico Mosè. E rimproverando duramente i due. Ma… punisce solo Miriam, con sette giorni di lebbra. Nulla per Aronne. Un riflesso della mentalità del tempo, dove era ritenuto normale, anzi doveroso, punire le donne che osavano criticare l’autorità maschile.
Il riscatto delle donne avviene con Debora, anch’essa profetessa, moglie di Lappidòt. «Ella sedeva sotto la palma di Dèbora, tra Rama e Betel, sulle montagne di Èfraim, e gli Israeliti salivano da lei per ottenere giustizia». Da venti anni gli israeliti sono sotto il giogo di Iabin, re di Canaan. Debora allora chiama il comandante Barak e gli ordina di predisporre diecimila soldati israeliti sul monte Tabor. Lei attirerà l’esercito cananeo guidato da Sisara, e Dio concederà la vittoria al suo popolo.
Barak è titubante: «Se vieni anche tu con me, andrò; se non vieni, non andrò». Debora gli dice che farà come lui vuole, ma in questo caso la gloria della battaglia sarà sua. Barack, che evidentemente non crede molto nella riuscita dell’impresa, accetta. Sotto la guida di Debora, Barak lancia l’esercito al combattimento. La vittoria arride alle schiere di Israele.
Ma il generale Sisara riesce a scappare. Nella fuga, cerca rifugio in una tenda dove sta una giovane donna israelita, Giaele. Che lo riconosce e lo invita a entrare: «Fermati, mio signore, fermati da me: non temere». Sisara entrò. Giaele, gli diede da bere del latte poi lo nascose sotto una coperta e gli assicurò che se qualcuno l’avesse cercato avrebbe detto che nella sua tenda non c’era nessuno. Sisara ci credette. «La fiducia è ciò che hai prima di capire il problema» dirai poi Woody Allen.
Ma Sisara non avrà tempo di capire il problema. Appena fu addormentato Giaele gli conficcò un picchetto nella tempia. Quando giunse Barak che era all’inseguimento di Sisara, Giaele gli disse: «Ecco qui l’uomo che cerchi».
Quel giorno Dio umiliò i cananei. Ma anche Barak. La gloria della vittoria doveva condividerla con due donne. Debora innalzò allora un cantico di vittoria, che rimane uno degli esempi più antichi di poesia ebraica: «Era cessato ogni potere, era cessato in Israele, finché non sorsi io, Dèbora, finché non sorsi come madre in Israele». E come “madre in Israele” sarà riconosciuta dal popolo ebraico.