Droni-killer, un mercato in forte crescita

Dietro la notizia di un attentato alla vita del premier iraqeno Mustafa al-Kadhimi, realizzato tramite un drone bomba, c’è molto di più: c’è la questione sempre più inquietante dell’uso dell’intelligenza artificiale nella gestione di armi che decidono autonomamente chi attaccare e uccidere.
Il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi (AP Photo/Susan Walsh)

La notizia è di pochi giorni fa (7 novembre): a Baghdad, nella super-protetta zona verde, un drone bomba ha colpito la residenza privata del premier Mustafa al-Kadhimi. Ignoto il mandante e nessuna rivendicazione dell’attentato. Il capo del governo iracheno è rimasto fortunatamente illeso, ci sono stati alcuni feriti fra le guardie del corpo e notevoli danni all’edificio.

Al di là delle molte considerazioni che si possono fare di fronte ad un attacco di questo tipo, una mi sembra assolutamente necessaria: i droni di ultima generazione oltre ad essere veicoli aerei senza pilota, soprattutto decidono autonomamente cosa fare sulla base della memoria fornita e dell’esperienza acquisita. Non c’è nessun umano, per essere chiari, che dice al drone se deve esplodere o sparare: lo decide da sé.

Il drone-bomba che è esploso a Baghdad era forse un velivolo “poco intelligente” che ha agito sulla base delle coordinate di un luogo (la casa del premier iracheno) e non del riconoscimento facciale di una persona (il premier stesso). Non come alcuni droni turchi forniti l’anno scorso al governo di al-Sarraj, in Libia, che sono stati determinanti nel bloccare l’avanzata dei contractors del generale Haftar ormai giunti alle porte di Tripoli. Alcuni dei droni apparsi in Libia per la prima volta in quella occasione costituiscono infatti un inquietante punto di svolta dei nuovi velivoli da combattimento senza equipaggio (Ucav) dotati di intelligenza artificiale (AI).

In un recente rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nu si segnala che i droni di cui stiamo parlando sarebbero “stati programmati per attaccare obiettivi senza richiedere connettività dati tra l’operatore e le armi stesse”. In uno specifico caso libico segnalato si trattava di un drone Kargu-2 (detto “sparviero euroasiatico”) ad ala rotante progettato dall’azienda turca Stm. Il drone è in grado di recepire le immagini tramite una telecamera ed eleborarle in tempo reale con algoritmi di apprendimento automatico di cui è dotato insieme ad una memoria fornita. Detto in parole povere, è il drone che decide dove esplodere, quando e chi uccidere, senza nessun ordine ricevuto da un operatore umano.

Per capire meglio è utile fare un confronto con un caso recente, quello dellomicidio del generale iraniano Soleimani, avvenuto a Baghdad il 3 gennaio 2020. Soleimani e il convoglio sul quale si trovava furono identificati da un drone statunitense Predator B. Chi premette il grilletto, a migliaia di km di distanza, per lanciare i missili che uccisero Soleimani ed altre persone, distruggendo il convoglio, fu un militare Usa autorizzato esplicitamente dal presidente Trump. Certamente un’azione eticamente e politicamente molto discutibile (per non dire altro), ma comunque un atto umano, per quanto disumano.

Eppure si tratta di qualcosa di tecnicamente ormai “superato”. Negli ultimi anni alcuni Paesi hanno messo a punto droni armati dotati di intelligenza artificiale che vanno oltre le capacità del Kargu-2 usato in Libia. Ne è un esempio eclatante l’eliminazione, meno di un anno fa, dello scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh, ucciso da un drone killer che gli ha sparato con una mitragliatrice satellitare dotata di AI, senza sfiorare le persone che stavano a poche decine di centimetri da lui.

Le prove generali di una serie di nuovi droni dotati di AI sono state fatte in Siria, Libia, Ucraina e Nagorno-Karabakh dalla Turchia, che si è imposta a livello mondiale come leader in questo settore, con la differenza che i droni killer turchi, rispetto agli analoghi russi e statunitensi, costano molto meno pur fornendo alte prestazioni.

A titolo di curiosità, e generalizzando molto, se un drone killer statunitense costa circa 10 milioni di dollari, uno dei nuovi droni armati turchi si può prendere anche con 5 milioni. Secondo il quotidiano francese Le Monde (26 giugno 2021), i droni turchi Siha si stanno vendendo come il pane e le commesse starebbero crescendo continuamente. Ci sono richieste da una decina di Paesi: Turkmenistan, Azerbaijan, Ucraina, Libia e Qatar, ma anche da Albania, Marocco, Etiopia, e perfino dalla Polonia. La Turchia non fa mistero, inoltre, di essere a buon punto nella realizzazione di un drone armato a propulsione jet, non più ad elica, che sarà pronto nel 2023.

Il rischio, anzi lo spettro, è quello di una escalation verso armi che agiscono e decidono sulla base di algoritmi automatizzati. Si tratta inoltre di armi acquistabili a basso costo e utilizzabili da non si sa chi. La normativa internazionale Onu sui droni armati risale al lontano 2014 e non comprende certo gli sviluppi tecnologici degli ultimi anni. Human Rights Watch, che chiede all’Onu di bandire l’uso di armi di questi tipo, afferma che “ci sono seri dubbi sul fatto che armi completamente autonome siano in grado di soddisfare gli standard del diritto umanitario internazionale, comprese le regole di distinzione, proporzionalità e necessità militare, mentre è probabile che possano minacciare il diritto fondamentale alla vita e il principio della dignità umana”.

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