Dove sono finiti?

Sbarcati a Lampedusa e sparsi in tutta Italia vivono nel silenzio e nell’indifferenza, ma non per tutti.
Sbarchi a Lampedusa

Asif è libico anche se i suoi tratti tradiscono un’altra provenienza: l’Asia. Lui però a Tripoli c’è nato ed era un rispettato rivenditore d’auto prima della guerra civile. Una notte i miliziani sono piombati a casa sua. Lo hanno minacciato: «O ti arruoli o ti imbarchiamo per l’Italia». Ha scelto la fuga su un barcone di fortuna e con lui la sua famiglia.

Christina è infermiera. Gheddafi nel 2009 aveva chiesto personale sanitario specializzato. Allettata dallo stipendio consistente, aveva lasciato il Pakistan. A marzo anche lei, con la violenza è stata costretta a salire su una delle tante carrette del mare, usate come bombe umane, senza alcun rispetto degli accordi siglati sul contrasto all’immigrazione clandestina. Asif in Libia vorrebbe tornarci, soprattutto dopo aver scoperto che il sistema di licenze per aprire un autosalone in Italia è un cappio burocratico che non gli consentirà di continuare il suo lavoro. Christina invece vorrebbe restare.

 

Vorrebbe restare anche Muhamad. Lui ha 17 anni e vive in una casa di accoglienza per minori a Catania. Il suo sogno è diventare un calciatore, ma la società per la quale vorrebbe giocare non lo accoglie perché manca del permesso di soggiorno, quello per motivi umanitari è una garanzia insufficiente per gli allenamenti.

Dal Trentino al Sudan. Samuel invece ha scelto il rimpatrio assistito: il 30 novembre è salito su un treno per Roma. Da lì in volo per Khartoum. Teme più la solitudine della guerra. Anche se tanti dei suoi connazionali continuano a ripetergli che Trento è la città con uno dei migliori progetti di assistenza. Nei suoi occhi e nelle sue parole sono stampati solo i colori e i suoni della sua terra.

 

Di fronte a questi volti, dentro queste storie la parola immigrazione e tutte le accezioni annesse di profughi, stranieri, pericolo, invasione, violenza si dissolvono. Ci si trova davanti a persone e a vite che, scampate alla tomba del Mediterraneo, si trovano nel nostro Paese senza identità, senza prospettiva, nel costante timore del rimpatrio. Perché il permesso umanitario a tempo determinato, concesso in aprile, scadrà per molti di loro il 31 dicembre. Il permesso tra l’altro non consente di lavorare all’esterno delle strutture che li ospitano, né tantomeno di avviare pratiche per una futura attività. E dopo? Resta solo l’attesa snervante di un colloquio in questura, con una commissione che decide se “il caso” potrà essere riconosciuto rifugiato e quindi accedere a un programma di protezione umanitaria e al sospirato permesso di soggiorno.

 

In Italia, dal mese di febbraio, quando i rivolgimenti nel Nord Africa hanno cominciato a “creare” emigrazione, sono giunti circa 55 mila migranti. Oggi ne rimangano 20 mila. I numeri più consistenti si trovano nelle regioni che hanno risposto all’emergenza con grandi tendopoli o ampliando i centri di accoglienza: Sicilia, Calabria, Puglia, Piemonte si trovano a gestire luoghi approntati nell’emergenza, che nei mesi si sono trasformati in Cara (Centri accoglienza richiedenti asilo) o in Cie (Centri identificazione espulsione). Problemi seri all’interno delle strutture sono il tempo e la mancanza di informazioni. Scorrono ore interminabili quando non si può lavorare, non si sa se si può uscire e si resta confinati con persone di nazionalità differenti, spesso in conflitto per vicende politiche e per tradizioni culturali. Il disagio fa presto a trasformarsi in rivolta, sia per i numeri che per la gestione talvolta al limite di qualsiasi decoro umano.

 

Le testimonianze sulla vita all’interno di questi centri sono raccolte in anonimato dai migranti, poiché una circolare del ministero degli Interni continua ad impedire l’accesso ai giornalisti. Non possiamo raccontare come si vive lì dentro. L’ultimo tentativo, conclusosi con un diniego dalla prefettura, l’ho fatto in settembre per il centro sant’Anna vicino Crotone. Sappiamo da operatori e volontari che si tenta di sopperire alle carenze strutturali con la buona volontà, ma non è sufficiente e non può diventare ordinaria quotidianità, quando i servizi igienici non funzionano, il cibo è insufficiente e monotono, quando il kit vestiario è dimezzato, quando ci si ubriaca perché non si riesce a sopportare l’inattività forzata o quando si diventa vittime della prostituzione perché la malavita in qualche modo riesce sempre a trovare vie di accesso. Le notizie sono spesso raccontate a denti stretti anche da persone della protezione civile, da operatori Caritas che presentano continue denunce sulle situazioni-limite.

 

Lo scenario cambia ad Arezzo. Asif e Christina li incontro durante una lezione d’italiano tenuta da Miria, un’operatrice dell’Oxfam, l’associazione umanitaria che ha aderito al piano di accoglienza approntato dalla regione Toscana. Nessuna tendopoli per il presidente Enrico Rossi: l’accoglienza doveva essere diffusa sul territorio e coinvolgere volontariato, associazionismo cattolico e laico. La bomba di una concentrazione umana su un unico luogo andava disinnescata in partenza. «Certo ci siamo trovati a rispondere a un’urgenza a cui non eravamo preparati», spiegano coralmente Ledo Gori e Maria Sergentini, braccia e mente del progetto. «Ora vogliamo tenerci queste persone – mi spiega con decisione Gori –. Gli abbiamo offerto corsi di italiano e di orientamento al lavoro. Li abbiamo inseriti nel territorio. Anche i vigili hanno fatto educazione stradale. Tanti di questi giovani hanno un buon livello culturale e non vogliamo perderli. Significherebbe il fallimento della nostra scelta di accoglienza». Sul tavolo arriva una lettera comune di alcuni amministratori locali che chiedono con insistenza la permanenza dei migranti e che si intervenga sull’appesantimento burocratico e sulla giungla normativa.

 

«La complessità legislativa e il suo continuo e frettoloso aggiornamento sono il vero problema» per Flavia Cerino, avvocato esperto di politiche migratorie, tutore con altri colleghi, di minori non accompagnati sbarcati da Lampedusa a Catania. «C’è disinteresse e un silenzio colpevole sulla politica migratoria adottata dal nostro Paese», spiega con foga. I cavilli legali hanno un risvolto immediato sulla vita dei ragazzi. Li vede ferirsi per attirare l’attenzione, li scorge apatici e disillusi, vittime e autori di violenze gratuite: la coltre di silenzio sul loro futuro è agghiacciante. Ma vede anche le difficoltà delle questure con poco personale e al collasso per le tante richieste.

Asif e Christina invece sono fiduciosi mentre aspettano pazientemente il loro stipendio: tre euro al giorno per un totale di 27 euro settimanali, il contributo previsto per legge. Mostrano scontrini e fatture e orgogliosamente raccontano dei loro successi al supermercato o al bar, dove vengono serviti come tutti. «Non è facile – conferma Miria – soprattutto con chi viene da Paesi Sub sahariani: Sierra Leone, Darfur, Nigeria. Qui il livello di istruzione è basso e le sofferenze lancinanti.

 

Con le altre associazioni facciamo rete e ci scambiamo le competenze: chi è più esperto in campo psicologico offre sostegno a chi è vincente sulle norme e viceversa». Provocatoriamente le chiedo quanto ci guadagna da questi progetti. «Lo Stato dà 35 euro al giorno; ti sembrano adeguati per diventare ricchi?». Poi, inattesa, arriva la commozione mentre ascolta i suoi alunni raccontare le loro storie in italiano: «Dopo quattro mesi di corso, capisci. Questo è il vero guadagno». Un guadagno illusorio senza le risposte della politica. E di noi cittadini.

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