Dopo le stragi c’è un altro futuro

Intervista a Rita Borsellino, la sorella del magistrato morto per mafia vant'anni fa.
Rita Borsellino

C’è la fatica e c’è la fortezza nella voce di Rita Borsellino mentre racconta quanto questi venti anni dalla strage di via d’Amelio abbiano cambiato la sua vita. Alle 17 del 19 luglio 1992 un’autobomba esplode nel cuore di Palermo e mette fine alla vita del magistrato Paolo Borsellino e di cinque agenti di scorta. Fino a quel momento Rita lavorava nella farmacia di famiglia, seguiva i suoi tre figli, era una persona comune. Poi quel cognome ha tracciato una direzione diversa: gli incontri nelle scuole per far conoscere Paolo e il suo lavoro, l’impegno con Libera, la politica attiva e ora la carica di deputato europeo. «Vivo una vita condizionata dalle scelte che ho fatto in seguito alle stragi – confessa con determinazione –. Il mio cognome comporta un grande senso di responsabilità, ma lo ha comportato sia quando era un cognome qualunque, sia quando è diventato rischioso».
 
Ogni giorno dal 1992 varchi la soglia di via d’Amelio per raggiungere casa. Che cosa pensa Rita davanti a quella lapide con i nomi di Paolo e della scorta?
«È come uno sdoppiamento. C’è una Rita comune, normale, sorella di Paolo che ha subìto un lutto gravissimo e un dolore gravissimo. Avrebbe potuto annientarmi, distruggermi, rinchiudermi in me stessa. Invece aver presente ogni giorno quello che accadde allora e quello che continua ad accadere mi spinge a essere quella che sono diventata: Rita testimone che si è fatta quasi un dovere di portare avanti la memoria di quello che è successo. Non è ricordo, ma memoria, cioè elaborazione ciò che è successo per contribuire a un futuro diverso».
 
A vent’anni dalla morte di Paolo, la procura di Caltanissetta ha chiesto di riaprire il processo su via d’Amelio. I magistrati sostengono che Cosa nostra agì assieme a personaggi che lavoravano nelle istituzioni e nei servizi segreti. Siamo ancora lontani dalla verità…
«Perché ci sono stati depistaggi? A chi serviva, a chi è servito? Perché si è voluto tenere nascosto tutto questo con un’architettura di bugie sicuramente abile se ha tratto in inganno tanti magistrati che hanno emesso anche sentenze definitive. Non mi interessa sapere chi. Ci hanno dato tanti nomi, alcuni saranno colpevoli, altri saranno implicati in altro modo, ma quello che voglio sapere è perché?».
 
Lo Stato ha fallito nella ricerca della giustizia?
«Non lo definisco un fallimento, ma ci sono parti dello Stato che sono profondamente colpevoli e che hanno remato contro. È come se ci fossero due parti che lottano l’una contro l’altra. Paolo era lo Stato Stato, come diceva il procuratore Vittorio Teresi, l’altro era lo Stato mafia. Non c’è però sconfitta se dopo venti anni si ricomincia a cercare sul serio la verità. Non si è riusciti a mettere tutto a tacere».
 
Il 19 luglio ci saranno manifestazioni e cortei. Non c’è il rischio che si cada in una retorica della memoria?
«Da vent’anni in via d’Amelio porto i bambini a giocare. Qualcuno non ha capito: come mai portare i bambini a giocare in un luogo di morte? Il significato vero della vita è quello di riappropriarsi anche della morte ed elaborarla per quello che è il suo significato. Il progetto di Paolo non può finire perché qualcuno l’ha ammazzato, lì nasce un progetto diverso affidato alle nuove generazioni. Dopo tanti anni quei bambini sono degli adulti e sono diventati loro gli animatori di questa che è diventata “la festa di zio Paolo”, come dicono le mie nipotine. La vita nonostante tutto continua e prende il sopravvento».
 
 
Eppure c’è chi dice: basta parlare di mafia!
«Questa è vigliaccheria perché il silenzio che ha accompagnato la mafia da sempre è vigliaccheria. L’immagine della Sicilia non è rovinata dalle cose che si dicono ma da quelle che accadono e il fatto che se ne parla, si conosca, ci si metta in contrapposizione è utile. C’è chi dice che intitolare l’aeroporto di Punta Raisi a Falcone e Borsellino è stato un errore perché dà una pessima immagine della città e invece la gente deve sapere che Palermo ha avuto la mafia ma ha avuto anche questi magistrati che ne hanno riscattato l’onore».
 
La donna ha un valore aggiunto nella lotta alla mafia?
«Sì. Lo ha nella lotta alla mafia e lo ha nella mafia per il suo valore educativo. La donna per sua natura educa i figli e trasmette i valori e purtroppo anche i disvalori».
 
Ha un feeling particolare con i giovani. Basta guardare la sua segreteria: tanti under 30 e qualche quarantenne…
«Sono mamma e sono nonna. Mi sono occupata dei miei figli e ho imparato con loro a fare la mamma, per cui è stato naturale ad esempio andare ad incontrare i tanti ragazzi delle scuole. Nel settembre del ’92 mi invitarono a parlare di Paolo ad una seconda e terza elementare nella scuola frequentata dai miei figli. La maestra mi disse che i bambini erano spaventati e che bisognava aiutarli. L’istinto materno mi fece superare la ritrosia e da allora non disdegno neppure le scuole materne. Ogni volta è come se spiegassi a me stessa quello che ho vissuto e sto vivendo. Mi aiutano a capire, mi danno coraggio, mi fanno vedere il nuovo».
 
Lei è credente. Quanto conta la fede nel suo impegno?
«Il Vangelo aiuta e mette in crisi nel tuo rapporto con la vita, con gli altri: questo è indispensabile e fa crescere. Quando tutto è quieto e piatto, magari si sta tranquilli, ma non si cresce. Il travaglio serve».
 
Penso che tanti le dicano: chi te lo fa fare? Ma Rita se lo è mai chiesta?
«Fino a qualche anno fa no. Poi c’è stata la scelta di avvicinarmi alle istituzioni e non alla politica perché la politica si può fare in tanti modi e io sentivo di farla anche durante questi incontri pubblici. Poi consapevolmente ho scelto di assumere un ruolo politico perché c’erano tante cose che non mi piacevano e poteva essere utile portare avanti quanto vissuto in questi anni: conoscevo il territorio, la sua gente, volevo portali dentro la vita delle istituzioni e cambiare la politica dall’interno. Confesso che faccio fatica a vivere all’interno, mi trovo a vivere tante delle cose che criticavo dall’esterno e mi è capitato di dirmi: chi me lo ha fatto fare. Poi però ci sono le tante soddisfazioni per il lavoro che stiamo facendo e sento che lasceremo una traccia in questa legislatura e allora mi dico che il gioco vale la candela e che va bene così».
 
Ci sono le delusioni e ci sono anche i momenti di entusiasmo: ne ricorda qualcuno?
«Ne ricordo tanti soprattutto nel primo periodo dopo le stragi: manifestazioni affollatissime, piazze presenti, sembrava di avere la soluzione dei problemi in mano. Poi sono arrivate le delusioni, la stanchezza per i tanti anni vissuti in strada. Alla fine però c’è sempre qualcosa che mi afferra per i capelli: una lettera, una domanda, l’incontro con un giovane, mi restituiscono la consapevolezza che bisogna esserci per non lasciare soli quelli che continuano ad esserci, ma confesso che è un momento di particolare fatica».
 
Usa il plurale quando parla del suo lavoro in Europa: il lavoro di squadra ha prodotto risultati importanti nella lotta alla criminalità, ma Palermo non ha riconosciuto questi sforzi. Come legge la sconfitta alle primarie?
«Non mi sento di parlarne ancora. Mi si potrebbe applicare la metafora di nemo propheta in patria ma non voglio essere presuntuosa. Premetto però che le primarie sono uno strumento importantissimo che è stato imbastardito dalle scorrettezze: va protetto e aiutato. Io inviterei a guardare quello che è successo alle elezioni vere e proprie: quando Palermo si rende conto che la situazione è grave, allora i palermitani ci sono. Palermo non può stare sempre in trincea e con una fiaccola in mano: ci sono periodi, situazioni diverse, e le persone cercano una normalità, la desiderano e di questo non si può fare una colpa».
 
L’Europa soffre di crisi d’identità e per qualcuno si potrebbe benissimo far senza. E Rita Borsellino cosa pensa?
«Senza Europa non si va da nessuna parte. L’Europa è stata una conquista ma oggi arranca e fa fatica anche perché non è realizzato a pieno il suo progetto politico. Si sta affrontando una situazione difficilissima ma si deve venirne fuori da europei altrimenti non possiamo farcela».
 
Per cambiare sul serio, sembra ci vogliano solo eroi…
«Eroi si diventa per caso. L’eroismo in questo Paese è fare ogni giorno il proprio dovere con coerenza senza lasciarsi fuorviare o attirare da percorsi collaterali più facili che non si sa dove portano. Questo è l’eroismo di tutti i giorni: continuare a vivere una vita quanto più possibile coerente e onesta».

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