Donne e telegrafi

Attualità di un racconto-denuncia di Matilde Serao sulla condizione lavorativa femminile nella Napoli di fine Ottocento
Matilde Serao con Eleonora Duse, Francesco Paolo e Tristan Bernard - foto di Giuseppe Primoli (1851–1927)

Confesso che ad attirarmi a leggere Telegrafi dello Stato di Matilde Serao – racconto del 1893 ambientato nella Napoli declassata con l’unità d’Italia da capitale di un regno a capoluogo – è stato il ricordo di mia madre e del suo lavoro come telefonista al Palazzo dei Telefoni in via Agostino Depretis, sempre a Napoli.

In quest’opera autobiografica, riscoperta e riproposta da Polidoro Editore, gli uffici dei Telegrafi dell’epoca erano ubicati in via Monteoliveto a Palazzo Gravina, oggi sede del Dipartimento di Architettura dell’Università “Federico “II”. Dico autobiografica perché la scrittrice e giornalista napoletana ma nata a Patrasso, cofondatrice del quotidiano Il Mattino, di cui ricorrono quest’anno i 130 anni dalla fondazione, per integrare il magro bilancio familiare dopo il diploma magistrale aveva lavorato per tre anni in quella sede come ausiliaria telegrafista.

Due erano allora i reparti, quello maschile e quello femminile, separati ma in competizione tra loro, essendo le ausiliarie più professionali, resistenti, veloci e dotate di maggior spirito di sacrificio dei loro colleghi, ma rispetto a questi sottopagate, relegate a ruoli subalterni e con meno accesso ad una carriera alla quale, del resto, la maggior parte di loro non aspirava: la meta era il matrimonio come forma di riscatto sociale ed emancipazione economica.

Questo universo tutto femminile col suo vasto repertorio di tipi umani la Serao lo conosceva bene. E da donna intelligente, arguta e insofferente degli stereotipi, lo descrive realisticamente nei suoi risvolti di miseria, ambizioni e speranze attraverso i dialoghi delle giovani impiegate, fra cui l’ausiliaria Maria Vitale si segnala per mitezza e disponibilità verso le compagne, mentre la stessa scrittrice è forse da individuare nella telegrafista con velleità letterarie.

Sono scene di straordinaria vitalità che raccontano una Napoli diversa dai luoghi comuni folkloristici, patetici e sentimentali; una città che si affaccia non senza una certa diffidenza alla modernità, rappresentata dalle macchine cui sono asservite le telegrafiste nei loro turni snervanti e non privi di rischi, dominati dal ticchettio ossessivo dei tasti.

Un passaggio culmine è quando, nell’imminenza delle elezioni politiche e in previsione dell’affollamento dei telegrammi su tutte le linee, il direttore invita tramite lettera le ausiliarie che se la sentono ad un servizio straordinario di due, tre e quattro ore oltre le sette regolamentari. «Le fanciulle ascoltavano, trasognate, con la sensazione di un grosso colpo nella testa, incapaci di decidersi: vi era tempo due giorni. E il fermento di ribellione nacque subito, si sviluppò in ufficio, nella strada, nelle case. No, non volevano prestar servizio straordinario. Era un’oppressione, un martirio anche quell’ordinario: farne dell’altro? Niente affatto. Perché, per chi? Le trattavano come tante bestie da soma, con quei tre miserabili franchi al giorno, scemati dalle tasse, dalle multe, dai giorni di malattia: e invece, esse avevano quasi tutte il diploma di grado superiore e al telegrafo prestavano servizio come uomini, come impiegati di seconda classe, che avevano duecento lire al mese.

Farsi un merito? Ma che, ma che! Chi le avrebbe considerate? Non erano nominate né con decreto regio, né con decreto ministeriale: un semplice decreto del direttore generale, revocabile da un momento all’altro. Se le telegrafiste facevano cattiva prova, le potevan rimandare a casa tutte, senza che avessero diritto di lagnarsi. L’avvenire? Quale avvenire? Erano fuori pianta, non avevano da aspettar pensione: anzi, diceva il regolamento, che a quarant’anni il Governo le licenziava, senz’altro: cioè se avevano la disgrazia di restar telegrafiste sino a quarant’anni, il Governo le metteva sulla strada, vecchie, istupidite, senza sapere far altro, consumate nella salute e senza un soldo».

Tuttavia quasi tutte finiscono per fare marcia indietro e aderire alla richiesta del superiore. Il racconto procede incalzante con le povere telegrafiste schiavizzate dalla marea montante dei telegrammi. Fino alla imprevista e tragica conclusione, da non svelare per non togliere la sorpresa al lettore.

Telegrafi dello Stato è un saggio del talento letterario della Serao, scrittrice prolifica candidata al Nobel, ma senza averlo ottenuto per il suo antifascismo. Nell’edizione Polidoro il racconto è arricchito dai contributi di due scrittori e giornalisti di epoche diverse: Vincenza Alfano, che ha curato la prefazione, e Ugo Ojetti, autore dell’intervista fatta alla stessa Serao nel dicembre 1894.

In risposta ad una domanda sul romanzo italiano, la scrittrice – già fatta oggetto di critiche per il suo italiano ritenuto scorretto – replica: «… se io non so scrivere, se io ammiro chi scrive bene, vi confesso che, se per un caso imparassi a farlo, non lo farei. Io credo con la vivacità di quel linguaggio incerto e di quello stile rotto di infondere nelle opere mie il calore, e il calore non solo vivifica i corpi, ma li preserva da ogni corruzione del tempo. Questo io penso. Le altre opere (e sono poche) redatte nel linguaggio purissimo e gelido vivranno?».

Il lettore che ha vibrato a questo racconto denso di umanità e al suo messaggio di denuncia sociale non potrà che darle ragione.

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