Donare per crescere

Intervista a Pietro Andrea Cavaleri, autore di Il dono e il donarsi: una prospettiva psicologica, «Nuova Umanità», XXXV (2013/4-5) 208-209
Pietro Andrea Cavaleri

 Dottor Cavaleri, lei è da molti anni psicoterapeuta; si è occupato anche, nella pratica della professione o nello studio, dell’età evolutiva? In quale fase della vita e in che modo si costituisce il senso dell’altruismo nel bambino? È un fattore socioculturale oppure è corretto ritenere che appartenga ad ogni essere umano?

 

Ho avuto modo di occuparmi di soggetti in età evolutiva sia nella mia pratica clinica, che nella mia ricerca in ambito teorico e ciò che mi ha sempre colpito è la curiosità, la naturale apertura, che i bambini hanno verso gli altri. In un suo recente libro dal titolo Altruisti nati, lo psicologo evoluzionista Michael Tomasello riporta alcuni studi tendenti a dimostrare come il comportamento altruistico compaia molto precocemente nell’essere umano, già tra i quattordici e i diciotto mesi di età. Si tratta di un comportamento del tutto spontaneo, che né le ricompense, né l’incoraggiamento dei genitori riescono ad incentivare. Anzi, nel corso di un esperimento, i bambini che erano stati “ricompensati”, si sono dimostrati meno propensi ad offrire il loro aiuto, rispetto a quelli che non avevano ricevuto alcun tipo di ricompensa. La tendenza ad aiutare gli altri si riscontra, senza alcuna significativa differenza, nelle stesse situazioni e alla stessa età, in bambini appartenenti a culture fra loro differenti. È molto probabile che fin dal terzo anno di vita sia presente nell’essere umano una naturale tendenza alla condivisione, una certa forma di “intenzionalità condivisa”, la sensazione cioè di fare parte di una dimensione intenzionale più vasta, l’intenzionalità del “noi”. Tuttavia, il fatto che nel bambino esista una “spontanea” tendenza ad aiutare e a condividere, non vuol dire che altri fattori, come l’esperienza o la cultura, non abbiano un ruolo importante.

 

 

Che cosa genera l’apertura all’altro e quindi la capacità di donare e di donarsi?

  

 Sembra che la propensione a donare, presente già in bambini molto piccoli, sia mediata dalla “partecipazione empatica”. Da ricerche condotte con bambini fra i diciotto e i ventiquattro mesi, è risultato che essi guardavano la “vittima” con un’evidente espressione di coinvolgimento emotivo, cioè di empatia. A giudizio dei ricercatori, è questa spontanea “partecipazione”, e non le ricompense esterne, a motivare l’altruismo e il dono. Anche molte ricerche neuroscientifiche vanno in questa direzione. Il nostro cervello, in altri termini, è fondamentalmente relazionale. Pare si sia evoluto per “simulare” al suo interno ciò che osserva all’esterno, favorendo così la nostra spontanea apertura all’altro, all’esperienza intersoggettiva, alla condivisione empatica. In certo qual modo, se vediamo una persona che soffre, “replichiamo” in noi la sua stessa sofferenza e non possiamo che donarle la nostra attenzione, il nostro aiuto, a meno che non presentiamo significative disfunzioni psichiche che ci impediscano di farlo.

 

 

Dono e donarsi: sono termini che erroneamente possono venire relegati nell’ambito religioso; qual è invece il loro significato e cosa dicono anche ad un laico?

 

Lontano dall’essere un argomento “religioso”, quello del dono e del donarsi costituisce un argomento che in questi ultimi anni ha suscitato un vasto interesse nella cultura “laica” ed un intenso dibattito soprattutto fra antropologi, filosofi, sociologi. [Il riferimento a Mauss potrebbe creare confusione, perché Mauss lega il dono ad una reciprocità resa “obbligatoria” dalle convenzioni sociali, mettendo in crisi l’elemento della gratuità che, invece, caratterizza l’idea di dono trattata da Cavaleri]Il dono genera l’amicizia, il legame sociale, la fondamentale esperienza di essere “riconosciuti”. Si potrebbe dire che il dono genera “l’umano”. Di recente il sociologo Donati ha sottolineato come il dono sia di fatto un potente tramite che pone in relazione gli uomini e li rende tali, permettendo ad essi di comunicare fra di loro, di elaborare un linguaggio condiviso, di sperimentarsi come appartenenti ad un’unica specie, a una medesima famiglia.

 

 

Come è possibile vivere il dono di sé senza rischiare di perdere la propria identità o – specialmente se si è ancora giovani – di non riuscire a definirla ed esprimerla pienamente? Oppure ritiene che, invece, sia proprio il dono a favorire la maturazione dell’identità personale di ciascuno?

 

La cultura moderna ci ha indotto a credere che l’esperienza del dono e del donarsi si ponga in termini del tutto antitetici alla legittima istanza di definire ed esprimere la propria identità soggettiva. In realtà le più autorevoli ricerche in ambito psicologico concordano nell’affermare che l’identità della persona umana può costituirsi e svilupparsi in modo sano e funzionale solo a partire dalla relazione con l’altro. Senza un altro che ci dona la sua attenzione, la sua cura, il suo riconoscimento, la nostra stessa salute mentale è in pericolo. La relazione di reciproco riconoscimento fra il bambino e la coppia genitoriale costituisce l’alveo attraverso il quale si costituisce e si esprime l’identità di ciascun essere umano. Identifichiamo i tratti salienti della nostra personalità esprimendoli a qualcuno, impariamo a conoscere le risorse di cui siamo in possesso ponendole a disposizione degli altri, diventiamo più consapevoli delle nostre emozioni nella misura in cui sappiamo riconoscere quelle degli altri e viceversa. La possibilità di realizzarci pienamente senza l’altro o addirittura in contrapposizione ad esso è una clamorosa “bugia”, che di fatto ci consegna alla patologia mentale. Jung sostiene che il dono di sé, senza alcuna intenzione di ricompensa, lontano dall’essere una “diminuzione” di sé, coincide in realtà con il pieno possesso di sé. È ovvio che il dono, e in particolare il dono di sé, non può mai costituire un’esperienza mentalmente sana se è frutto della costrizione, della manipolazione, del baratto o del ricatto affettivo.

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