Don Milani: grande e datato

Sacerdote, educatore, uomo del Concilio, profeta della nuova scuola

50 anni fa moriva don Lorenzo Milani, stroncato a 44 anni da un linfogranuloma il 26 giugno 1967. Nel coretto d’interventi (anche polemici) levatisi per l’occasione, tra qualche voce stonata e qualche altra forse un po’ troppo zuccherosa, la figura del Priore di Barbiana – sacerdote, educatore, uomo del Concilio, profeta della nuova scuola –, si è puntualmente riproposta come segno di contraddizione, oggetto «d’inestinguibil odio e d’indomato amor», per dirla col poeta.

Si è andati al solito da un estremo all’altro, come se 5 decenni di riflessioni, dibattiti, studi, revisioni, con sullo sfondo mutamenti a dir poco epocali, non ci fossero stati. Da un lato la demolizione conservatrice e impietosa – come l’articolo Io sto con la professoressa su Il sole 24 ore, dove Lorenzo Tomasin incolpa don Milani e la sua visione socio-politico-pedagogica di tutti i mali della scuola italiana (dal livellamento al basso al rigetto della cultura classica) –, e dal lato opposto quasi il culto della personalità.

Come il Milani dell’Uomo del futuro di Eraldo Affinati (suo ex alunno nella storica scuoletta) o l’apologetica introduzione di Alberto Meloni ai due pur pregevoli volumi dei Meridiani Mondadori con tutti gli scritti milaniani (Milano 2017). Quanto a Walter Siti, che è andato incontro al ridicolo azzardando un don Milani omosessuale senza uno straccio di prova, il suo più che un contributo conoscitivo ha l’aria di una furba trovata. Nelle rievocazioni può succedere.

Ma a parte agiografie o demonizzazioni, questo anno milaniano ci deve ispirare qualche riflessione pacata, seria, obiettiva. Sul filo della memoria, magari. La mia generazione sessantottina, in Italia, ricorda perfettamente il mito di don Milani nato subito, a pochi mesi dalla morte. Dopo le prime occupazioni e manifestazioni, tutti a leggere Lettera a una professoressa, il nostro “libretto di Mao” non era solo rosso ma pure bianco.

Eravamo contenti e fieri che il ’68, la contestazione non fossero solo marxisti ma anche cristiani, non solo sociali ma anche ecclesiali, non solo universitari e urbani ma anche rurali ed estesi alla scuola tutta. Non che ci tenessimo al marchio cattolico sulle nostre iniziative, proposte ecc., anzi quella era una fase di laicizzazione di sigle e realtà; però è un fatto che l’ottica di don Milani, laica, pedagogica, sociale ma sicuramente di matrice cristiana rimescolasse le carte e arricchisse la cultura del movimento studentesco di quegli anni.

Grazie alla Lettera, e poi alle Esperienze pastorali e agli altri scritti, la sua visione di un’educazione e di una scuola aperta, popolare, “contadina”, non classista e partecipata entrava nella cultura di fine decennio, non solo scolastica ma politico-sociale. Si è trattato di un contributo importante, definitivo. Riscoprirlo è il primo compito di questo 50°.

Detto questo, è chiaro che come il ’68 rosso dei compagni così quello bianco di don Milani ha la sua parte datata; è legatissimo a quell’epoca e troppa acqua, di ogni genere, è passata nel lungo intervallo sotto i ponti. Oggi c’è più voglia di meritocrazia (nel senso migliore, con ricaduta sociale), più bisogno di dar spazio alla creatività dei singoli e più esigenza di recupero dei valori e dei contenuti tradizionali di quanto non ne avvertisse don Milani.

Ma restano gli apporti fondamentali, e restano anche il valore e l’esempio racchiusi nella straordinaria biografia e nel percorso assolutamente sui generis di questo pretino milanese di nascita e toscano di adozione, rampollo di una famiglia ebrea intellettuale e alto borghese, convertito a poco più di 20 anni ed entrato in subito seminario.

Poi l’ordinazione, le difficoltà e le incomprensioni incontrate nelle realtà di Chiesa degli anni ’40 e primi ’50, l’asilo forzato nella campagna di S. Andrea di Barbiana vicino Firenze, l’idea della scuola per i figli dei contadini e l’avvio di un’esperienza di formazione e condivisione con i ragazzi del popolo che avrebbe messo un punto fermo nella storia scolastica, pedagogica e sociale del nostro Paese.

Il tutto, da parte di don Lorenzo, sempre senza grida né ribellioni, teorizzando la disobbedienza ma in realtà ubbidendo in nome di valori superiori, senza lasciarsi strumentalizzare da partiti, né sindacati, né ideologie: altro che cattocomunista, come qualcuno gentilmente già lo additava, inaugurando un epiteto ahimé fortunato!

Se si può essere al tempo stesso (veramente) grandi e (inevitabilmente) datati, don Lorenzo Milani lo è stato senz’altro. Secondo noi è la conclusione giusta per ricordarlo a 50 anni da una fine arrivata troppo presto.

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