Don Camillo, l’attualità di un film campione di incassi

Attualità ed eticità del capolavoro di Guareschi, portato sullo schermo nel 1952

70 anni fa usciva, contemporaneamente in Italia, Francia, Germania Ovest, Austria e Svezia, Don Camillo, il film che ha portato sullo schermo i racconti sul più celebre (ma immaginario) parroco della Bassa Padana negli anni del primo dopoguerra, nati dalla penna arguta e dalla fantasia sbrigliata di Giovannino Guareschi.

Negli anni immediatamente successivi la pellicola, una coproduzione italo-francese, uscì in un’altra quindicina di Paesi, fra cui Gran Bretagna, Stati Uniti e Argentina. Ci fu perfino un’edizione giapponese, uscita nei cinema nipponici nel ’54, con tanto di dialoghi tradotti dal dialetto della Bassa Emiliana alla lingua del Sol Levante!

In pratica si replicò tale e quale sugli schermi cinematografici di tutto il mondo l’enorme successo ottenuto prima in Italia e poi all’estero dai racconti (una ventina) che hanno per protagonisti il mitico prete di Brescello e il sanguigno sindaco comunista del paese reggino, suo amico e rivale “politico”, pubblicati fra 1946 e ’47 e poi riuniti in volume e stampati da Rizzoli nel 1948.

Quello riscosso da Don Camillo fu in effetti un successo così gigantesco che, quando ancora i sequel non erano un’abitudine come oggi, in 12 anni furono realizzate altre ben 4 pellicole con gli stessi personaggi e ambienti, sempre sceneggiate da Guareschi insieme ad altri. Ecco i titoli: Il ritorno di don Camillo (1953), Don Camillo e l’onorevole Peppone (1955), Don Camillo monsignore… ma non troppo (1961) e Il compagno don Camillo (1965).

Nel ’70 fu messa in cantiere una nuova “puntata” del ciclo, Don Camillo e i giovani d’oggi, ma le riprese furono interrotte dai gravi problemi di salute di Fernandel, che purtroppo sarebbe morto nel ’71. Il film uscì l’anno dopo con la regia di Mario Camerini, Gastone Moschin nel ruolo di don Camillo e Lionel Stander nei panni di Peppone. Ma era tutta un’altra cosa, è facile capirlo.

Mario Girotti-Terence Hill ci riprovò nell’83. Esito? Seppellì probabilmente per sempre quei personaggi e quei temi, per cui i “magnifici 5” restano i classicissimi insostituibili ed ever green per conoscere, gustare e ridere con l’incontenibile don Camillo e il suo baffuto antagonista.

E torniamo ora al film del ’52, come ho detto un successone, ma per la sua realizzazione non mancarono i problemi. Vediamoli. Si mirò a un equilibrio fra contributo italiano e francese, come si vede in primis dai due protagonisti, il transalpino Fernandel, marsigliese purosangue, e l’italiano Gino Cervi. Pure cast, tecnici e maestranze furono scelte fifty-fifty. Lo sceneggiatore, chi se non Guareschi?, fu affiancato da un autore francese, René Barjavel e in un secondo tempo dallo stesso regista, Julien Duvivier.

E qui si innesta un altro problema incontrato dalla produzione. La regia doveva essere affidata a un italiano, ma uno dopo l’altro Mario Camerini, Vittorio De Sica, Luigi Zampa e Renato Castellani non se la sentirono per motivi politici, data la fama “destrorsa” di Guareschi, demonizzato dai comunisti.

Per la stessa ragione sindaci e giunte rosse del Parmense – la terra di Guareschi, dove lo scrittore aveva immaginato la sua storia – non concessero alla troupe di girare nei loro comuni. Così si optò per la più elastica provincia di Reggio Emilia e il regista, alla fine inevitabilmente francese, fu lui a scegliere Brescello per via della sua piazza, dove si affacciavano sia la chiesa parrocchiale che il municipio, e dunque era la miglior location possibile.

Un altro problema lo rappresentò nientemeno che Guareschi, che litigò con gli sceneggiatori francesi e scelse di risultare alla fine solo come autore del soggetto. Tuttavia volle essere presente ogni giorno alle riprese, e per questo si fece ospitare dal parroco in canonica. Dove un giorno penetrarono i ragazzi di un circolo universitario reggino, che lo avevano invitato a una festa ottenendone un rifiuto, e gli rubarono il suo pigiama di seta. Una goliardata appunto, e tutto poi finì bene, con riconsegna del maltolto e strette di mano, però fu un test della tensione serpeggiante sul set e in paese nei giorni della lavorazione.

Tutto questo, problemi, tensioni, litigi e quant’altro, non ha impedito ai realizzatori di Don Camillo di produrre non solo un capolavoro assoluto di un genere peraltro difficilmente classificabile (film comico? commedia di costume? satira politica? commedia etnica?…), ma anche la pellicola italiana con un palmarès fra i più lusinghieri che possa vantare il nostro cinema nella seconda metà del ‘900.

Nel 1952 Don Camillo è stato il numero uno dei campioni di incassi con un miliardo e mezzo di lire. Inoltre il film con Cervi e Fernandel occupa il settimo posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre, con 13 milioni e oltre 215 mila spettatori. E come se non bastasse la Rete degli Spettatori lo ha piazzato nell’elenco dei 100 film italiani da salvare, a fianco ad opere come Roma città aperta di Roberto Rossellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, Divorzio all’italiana di Pietro Germi, La dolce vita di Federico Fellini e insomma tutti i grandi capolavori del cinema tricolore.

Io aggiungerei un altro di titolo di merito, doppio, cioè l’attualità e il valore educativo. Don Camillo è datato se si guarda ai contenuti e a certe forme della lotta politico-ideologica nell’Italia rurale del dopoguerra. Oggi è tutto diverso, a iniziare dal crollo di partiti e ideologie. Però la forza morale, la vitalità e la passione incarnate dai due protagonisti esprimono valori non solo attuali, ma oggi necessari e da risvegliare.

Educativo è poi il messaggio del film, e del suo autore, oggi rilanciato, riletto e continuamente tradotto. Camillo e Peppone si insultano, si arrabbiano, si aggrediscono, si fanno i dispetti e si calunniano senza esclusione di colpi, ma non si odiano e anzi in fondo sono amici; non si disprezzano ma al contrario si rispettano, si stimano a vicenda e concordano sui temi e i valori che più contano. La convivenza civile, la pace, la giustizia sociale, e anche l’amore per la vita, da prendere con un pizzico di umorismo e di ironia per tirare meglio avanti. Una prova?

Nel film lo scontro più duro è sulla Casa del Popolo voluta da Peppone e la scuola per l’infanzia invocata da Camillo. Alla fine si faranno l’una e l’altra, con soddisfazione di entrambi. Ma, soprattutto, ci guadagnerà la gente. E il pubblico del cinema (o delle piattaforme!), aggiungo io, giunto alla terza o quarta generazione per questo film.                                                                          

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