Domanda e risposta sul debito pubblico

Un confronto in merito alle questioni affrontate dal professor Benedetto Gui nei suoi interventi su Città Nuova
Esma Cakir/picture-alliance/dpa/AP Images

Vorrei manifestarvi alcune perplessità relative agli articoli dell’economia Benedetto Gui. Le perplessità nascono dal fatto che, passi i giornali e le televisione impregnati – mi si passi il termine – di ideologia liberista – ma leggere certi articoli su siti che dovrebbero far loro la dottrina economica e sociale della Chiesa, mi sorprende non poco. Mi riferisco in particolare all’articolo ” Le falsità sull’Europa” . Come è possibile, mi chiedo, continuare a paragonare il debito pubblico di uno Stato con il debito di una famiglia? Lo Stato detiene il controllo dei propri soldi tramite la sua Banca Centrale, e se l’Italia ha limitato la propria sovranità delegando questo potere ad una banca comune, ciò non modifica il problema. Sarà questa Banca a fornire i soldi agli Stati, ciò che si chiama “prestatore di ultima istanza”. Con questi meccanismi come si può pensare che uno Stato, a differenza di un privato, possa fallire? Come è possibile paragonare, come viene fatto in altro articolo, il fallimento dell’Argentina con il debito pubblico italiano? L’Argentina è fallita perché aveva il debito in una moneta estera, cioè in Dollari! Quindi se mai l’Italia dovesse fallire sarebbe una precisa responsabilità della BCE, non dello Stato Italiano. E per il debito degli Stati africani dove si pensi sia la colpa, se non del FMI?  Insomma io penso che un economista di fede cristiana dovrebbe dire con chiarezza che noi viviamo in un determinato sistema economico – monetario ma deve anche dire che esso non è l’unico e, probabilmente, neanche il migliore.

Giovanni Di Guglielmo

Gent. Giovanni di Guglielmo,

La ringrazio dell’attenzione che ha dedicato ai miei articoli e condivido il Suo desiderio che i meccanismi economici non ostacolino, ma favoriscano, la vita delle comunità.

Nel parlare di equilibrio della finanza pubblica viene naturale fare un parallelo con la finanza di una famiglia, perché è quella di cui abbiamo l’esperienza più diretta. Ma nessuna analogia è perfetta e, come Lei mette giustamente in risalto, rispetto ad una famiglia uno Stato ha dei margini di autonomia in più.

Una prima differenza è che uno Stato non è soggetto alle leggi sul fallimento (per inciso, credo di non aver mai usato l’espressione “fallire”). Quindi quando si trova in serie difficoltà può semplicemente  “ripudiare” il suo impegno a ripagare i debiti. Il ripudio può essere anche solo parziale: il debito pubblico viene  “ristrutturato”, ad esempio trasformando forzosamente titoli pubblici con scadenza un anno in titoli ventennali e con un tasso più basso di quello del mercato (il crollo del valore di quei titoli che ciò provoca  equivale di fatto a non ripagare una frazione del debito). Questo è successo varie volte, non solo per il debito in valuta estera, ma anche per il debito interno in valuta nazionale. Si tratta comunque di eventi relativamente rari, perché poi per un po’ di anni sarà difficile per quegli Stati trovare ancora qualcuno disposto a prestar loro soldi.

Una seconda differenza è che uno Stato può rivolgersi alla banca centrale, quella che emette la moneta nazionale, e chiederle di fare da “prestatore di ultima istanza”, soprattutto nei momenti di difficoltà.

Ma nonostante ciò anche per gli Stati esistono dei limiti alla possibilità di rinviare al futuro i pagamenti senza che ne venga un danno, talvolta molto grave, per qualcuno. Se si continua con un sistematico eccesso di spesa pubblica rispetto alle entrate fiscali, finanziato – mi si perdoni l’espressione semplicistica – “stampando moneta”, la storia ci insegna che la conseguenza è l’inflazione. L’inflazione non è un formale default (ossia ripudio del debito), ma chiunque possieda moneta nazionale o crediti denominati in tale moneta ne vede più o meno pesantemente decurtato il valore: una vera “tassa da inflazione” che grava senza alcun criterio di equità su chiunque a quella moneta abbia dato fiducia (e quindi una tassa in genere grava più sui piccoli e medi patrimoni che su quelli grandi, perché i possessori di questi ultimi sono i primi a metterli in salvo portandoli all’estero e cambiandoli in dollari o altre monete forti). Un vicino Paese che oggi soffre di questo genere di problemi è la Turchia.

Non credo siano queste le soluzioni che Lei auspica. E neanche le dure manovre fiscali necessarie a superare, pur senza arrivare a ristrutturazioni del debito, le crisi di sfiducia che prima o poi colpiscono i Paesi che spendono e “stampano”.

Lei sembra sostenere che con l’entrata dell’Italia nell’euro il ruolo di prestatore di ultima istanza sia passato tal quale alla Banca Centrale Europea. Ma così non è.

La Banca Centrale non è tenuta a finanziare in tutti i casi i debiti pubblici di tutti i 19 Paesi membri “a piè di lista”. Direi che la cosa assomiglia a quando, ai tempi della lira, la Banca d’Italia non era obbligata a finanziare il debito di tutte le amministrazioni regionali o comunali, anche perché questo avrebbe premiato le amministrazioni più opportuniste o più inefficienti. Questo non significa che le istituzioni europee si disinteressino dei problemi di finanza pubblica dei singoli Paesi. Esiste un “fondo salva Stati” e altre forme di intervento, che però scattano solo a certe condizioni se il Paese in difficoltà collabora riducendo i suoi squilibri.

Questo, mi sembra di poter dire, è il mondo nel quale ci troviamo a vivere, con le cui regole – più o meno giuste, più o meno perfette che siano – dobbiamo fare i conti per non farci ancor più del male. Restare nell’euro e fare le spavalde affermazioni di non volere limiti alla spesa pubblica che hanno caratterizzato la stagione politica appena conclusa ha sortito come unico risultato di farci spendere miliardi (nell’anno passato, in questo e ancora nei prossimi) in maggiori interessi. Uscire dall’euro, poi, ci esporrebbe davvero a dinamiche più simili a quelle dell’Argentina.

Potrebbe esserci un sistema di regole migliore? Sì, una responsabilizzazione maggiore, in qualcuna delle varie forme possibili, delle istituzioni economiche dell’Unione nei confronti delle problematiche di finanza pubblica dei paesi membri.

E dato che negli ultimi anni la Banca Centrale, pur senza dirlo a voce troppo alta, ha ben finanziato il nostro debito pubblico (al pari di quello degli altri Paesi), quello che urge di più è che a spendere in investimenti per rilanciare l’economia sia qualche altro soggetto, diverso dai governi dei Paesi più in difficoltà: l’Unione in quanto tale e/o i Paesi con le finanze pubbliche più in ordine e con i surplus commerciali più ampi (Germania e Olanda in particolare).

È a queste forme di solidarietà, che creano stabilità e sicurezza per tutti, che bisogna lavorare con impegno e lealtà insieme ai nostri partner europei, ma senza togliere a ciascuno la propria responsabilità.

Per finire, mi permetta una battuta un tantino pungente. Immagini che oggi, invece dell’Italia, sia per esempio la Francia ad essere super-indebitata e a voler far crescere ulteriormente il suo deficit concedendo regole pensionistiche più generose o tasse più leggere ai titolari di redditi alti. Davvero, se cristiano, un economista dovrebbe chiedere che la Commissione Europea approvi e che la Banca Centrale taccia e sborsi?

Benedetto Gui

 

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