Dolore cronico e qualità della vita

Come il dolore cronico può influenzare la vita delle persone? Quali aspetti entrano in gioco e non dovrebbero essere sottovalutati nella comprensione e nel trattamento? E quando si tratta di dolore cronico senza un riscontro fisico, cioè senza una diagnosi comprovata, come convivere con esso?

Sebbene il dolore abbia medesimi circuiti, reazioni ed effetti, occorre fare una differenza tra dolore cronico per una diagnosi comprovata, in cui cioè la causa del dolore è chiara, e dolori cronici per pazienti i cui sintomi sono presenti, ma la funzionalità degli organi – dalle indagini effettuate – non risulta compromessa e non è dunque possibile formulare una diagnosi secondo i criteri medici soliti.

Per i primi sapere quale è la fonte del dolore indica una via per il trattamento, sebbene non sia sempre di facile l’accettazione della diagnosi e l’iter delle cure. Per i secondi l’iter diagnostico è tortuoso e snervante, non ci sono evidenze cliniche, a volte ci sono solo sospetti e spesso la comunicazione a livello medico-paziente e da paziente a sistema sociale di riferimento è carente di empatia.

Samira Peseschkian, nel suo recente libro scritto in tedesco “Der Schmerz und seine Komplizen” (tradotto “Il dolore ed i suoi complici”) (Ed. Herder, 2019) analizza come funziona e si mantiene il dolore cronico, cosa produce a livello comportamentale e sociale nella persona, e come si può intervenire su questo meccanismo consolidato. Lo fa in base alla sua esperienza come paziente, ai suoi studi come medico e sulla base degli studi avviati da suo nonno, Nossrat Peseschkian (psichiatra) sui pazienti con dolori cronici.

Dal suo lento calvario, passando attraverso diagnosi ipotetiche o false, l’autrice racconta come appaia tutto così incerto quando la causa del dolore non è subito trovata. La presenza stessa dei sintomi viene messa in dubbio con un sovraccarico di insicurezza emotiva nel paziente, con un senso di discriminazione per non sentirsi compreso o riconosciuto, e troppo velocemente stigmatizzato. Non sapendo come parlarne, diventa difficile anche mettere al corrente gli altri, si può arrivare fino ad avvertire il bisogno di doversi giustificare, di sentirsi in colpa per il da fare che si arreca agli altri nei momenti di convivialità sociale o il non poter rispettare i propri impegni. Ci si può sentire in colpa per i tentativi di verificare se veramente i sintomi ci sono, cercando di comprendere fin dove il proprio corpo può ancora funzionare, tentativi che spesso finiscono in un aggravio dei sintomi, ma necessari per comprendere quali siano i propri attuali personali limiti; oppure si provano sensi di colpa per non darsi abbastanza da fare nell’evitare i dolori, poiché si avverte di non avere ancora la situazione sotto controllo.

Un primo step importante in questi casi è attivare la propria resilienza, non c’è medico o rimedio che possa togliere il dolore in modo miracoloso, piuttosto occorre assumere una posizione attiva ed utilizzare le proprie risorse interne per ascoltare il proprio corpo e cooperare con lui.

Una volta che il circuito del dolore si è attivato, esso tende ad autoalimentarsi attraverso quelli che la Peseschkian chiama complici del dolore. Il dolore spesso crea disturbi del sonno, dormendo male si abbassa il nostro livello di soglia del dolore, per cui si innalza la sensibilità al dolore e la percezione degli stimoli dolorosi diventa più forte. Questo meccanismo funziona come un circolo vizioso che si autoalimenta.

Attraverso la memoria del dolore che il corpo mantiene, si genera una aspettativa del dolore. Cioè il dolore che si è abituati a sentire, diventa dolore atteso. Anche lo stress, che di norma può essere controbilanciato nella nostra quotidianità attraverso attività ricreative, nei pazienti con dolore cronico è un ulteriore carico che per essere bilanciato richiede molto più impegno. Lo stress non è uguale per tutti: per alcuni agisce a livello fisico, per altri a livello emotivo, per altri a livello sociale o cognitivo. Inoltre si genera nella persona ansia per il futuro, legata all’incertezza per come si evolveranno le cose, cosa si potrà ancora fare e questi pensieri rinforzano ulteriormente la percezione del dolore. Ed infine, non di poco conto, c’è la difficoltà a partecipare alla vita sociale con il conseguente senso di esclusione fino al senso di inutilità che molte persone riferiscono.

Imparare a conoscere il proprio corpo, a differenziare i giorni l’uno dall’altro, prendersi cura dei propri bisogni di base come ad es. il sonno, l’alimentazione, l’igiene personale (fisica e mentale), prestare attenzione al ritmo sonno veglia, al movimento, alla meditazione o preghiera, ad esercizi di rilassamento, a mantenere i contatti sociali, sono azioni che devono poter far parte della routine quotidiana o quantomeno della struttura settimanale. Mantenere spazi di curiosità, rispolverare hobbies e garantirsi piccole attività ricreative frequenti hanno la funzione non solo di allietare l’animo, ma anche di ingannare il cervello distraendolo dal quel circuito del dolore atteso che si è innescato. Continuare a prendersi cura di sé e rimanere empatici con se stessi rafforza il processo costante di accettazione del dolore e consente di non identificarsi con esso.

 

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