Dimenticare Baghdad?

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Baghdad: immensa coi suoi svincoli faraonici e i vasti spazi abitati intervallati da fitti palmizi. I carri armati e le autoblindo distrutti ai bordi delle vie di comunicazione della capitale irachena non si contano. Passa un camion carico di obici esplosi. Un semaforo stranamente funziona, nessuno lo osserva. Qua e là i segni della strategia dei primi giorni, quando il rais faceva bruciare petrolio greggio nel perimetro della capitale. E poi statue divelte e palazzi colpiti, bruciati e saccheggiati. Quindi i commerci, che riprendono la loro attività: si trova di tutto, ma i prezzi sono paurosamente aumentati. Ovunque sono in vendita antenne paraboliche: erano vietate, e quindi ora appaiono il simbolo della nuova libertà. Prima impressione: un paese allo sbando. Motivi di sconforto Il primo motivo, ovvio, si cristallizza nel momento di lasciare il paese, alla frontiera giordano-irachena, sotto la grande statua di Saddam Hussein ridotta a un ammasso di ferraglia. Nell’attesa di un calvario che si protrarrà per otto ore, col termometro che flirta coi quaranta all’ombra, coi meticolosi controlli giordani, scambio quattro chiacchiere con un fante dell’esercito Usa. William viene dall’Arkansas, ha diciott’anni. Gli chiedo che cosa pensi della guerra. Alza gli occhi al cielo: “War is always dirty”, la guerra è sempre sporca. Un desiderio? “Tornare a casa dalla mamma”. Banali parole, che sintetizzano bene l’incongruità culturale e storica di una presenza militare occidentale nel deserto. Altro motivo di sconforto, l’anarchia e il degrado che regnano a Baghdad. Colpisce la megalomania violata degli edifici voluti da Saddam, tutti danneggiati, incendiati e distrutti dai bombardamenti o dai saccheggi. La furia devastatrice degli iracheni ha fatto più danni dei bombardamenti americani, mentre le forze di occupazione lasciavano fare. In uno dei quartieri più poveri, Baghdad Jadida, Baghdad nuova, attraverso un immenso mercato dove si espongono i frutti delle razzie, seppur di livello inferiore a quelli dei mercati del centro, dove si vendono invece i pezzi pregiati. Se lì si trovano rubinetterie dorate, qui vedi water sbeccati e lavandini fessurati; se lì si esibiscono sontuosi divani dorati, qui modeste poltroncine da ufficio di periferia. Nel bel mezzo della folla, tre autoblindo stazionano con le mitragliatrici piazzate per rispondere a ogni attacco dei cecchini. Ma la gente si accalca attorno ai mezzi corazzati. È una delle contraddizioni più evidenti a Baghdad: da una parte la popolazione mantiene radicati sentimenti antiamericani, che si esprimono tra l’altro nella convinzione che le penurie di acqua, elettricità e benzina, oltre alla mancanza di un corpo di polizia che garantisca la sicurezza, siano mantenute ad arte dagli occupanti; dall’altra, l’insopprimibile accoglienza e la naturale fiducia loro proprie spingono questa gente a trasformare gli invasori in uomini con un volto e un sorriso. L’anarchia si manifesta anche nell’uso indiscriminato delle armi. Una mattina, ad un isolato appena dalla mia abitazione, si scatena un violento scambio di colpi d’arma da fuoco, che dura un buon quarto d’ora. Il quartiere sospende la propria esistenza, concentrando le energie in uno solo dei sensi, l’udito. Finché tutto si calma, e nell’aria rimane il rassicurante cinguettio degli uccelli. In tali situazioni – lo sconforto aumenta – si fa sentire chi urla più forte. Preoccupa una certa presenza fondamentalista sciita. Non solo perché le sedi del partito Baath sono state trasformate in moschee; non solo per i proclami dell’imam Fardousi, che vuole eliminare produttori di alcol, proprietari di cinema e produttori televisivi; non solo perché ieri hanno ammazzato un cantante compromesso col rais; non solo perché cambiano la toponomastica della città, trasformando ad esempio via Yasser Arafat in via El-Mahdi (il 13° imam sparito); non solo perché hanno scacciato un migliaio di palestinesi dai palazzi che abitavano lungo il Tigri, usufruendo di un sussidio pagato da Saddam” Si temono le vendette di chi è stato tenuto lontano dal potere per più di cinquant’anni. E chi ci rimette sono sempre i più deboli: i bambini (che non hanno più scuola), i disoccupati (l’80 per cento), le madri di famiglia (che dal mercato portano a casa poche cose), i malati (anche gli ospedali sono stati saccheggiati), gli handicappati (soprattutto le vittime delle “sperimentazioni chimiche”), i piccoli imprenditori (che non hanno più né materie prime né energia)” Gravi dubbi Passato il comprensibile sconforto, e ragionando a mente lucida, alcuni dubbi non possono che persistere. Potranno ad esempio i cristiani continuare a vivere nella terra evangelizzata da Tommaso? Ho incontrato casualmente un chirurgo cristiano che per lavorare doveva accondiscendere al regime, pur non essendo iscritto al partito Baath. Ebbene, di fronte all’insicurezza che prova oggi nel mandare sua figlia a scuola, medita di partire dal paese. La vivacità della comunità è comunque sorprendente, come appare evidente nelle celebrazioni feriali che paiono domenicali. Almeno 250- 300 persone vi partecipano in ogni parrocchia, non solo donne. Si canta con forza, ma in un raccoglimento particolare. La religione qui non è oppio dei popoli, ma esigenza naturale. Incontro il vescovo dei latini, mons. Jean Sleiman, carmelitano libanese, nel vescovado, vicino al convento dei domenicani. Dalle sue parole traspare una profonda inquietudine. Accanto al sollievo per la liberazione dalla dittatura, si unisce l’interrogativo sull’avvenire della cristianità irachena, la prova più grande che si pos- sa immaginare per una chiesa di minoranza. Mons. Sleiman, che nonostante tutto non perde quel sorriso che nei discepoli di Cristo è “segno della resurrezione “, manifesta profondi dubbi sulla possibilità di una convivenza alla pari coi musulmani, per l’esplosione del fondamentalismo. Secondo dubbio: ci sarà mai vera giustizia in questa terra? L’interrogativo traspare dalle parole di numerose personalità incontrate. Ad esempio da quelle del vicario patriarcale dei caldei, mons. Emmanuel-Karim Delly, uomo senza paura: “Sotto Saddam – dice – tutti dovevamo sopportare, e non potevano fare altro che non appoggiare il regime, o almeno cercare di calmarlo. Sopportavamo tutto e la vita continuava. Con la guerra la situazione è cambiata: il popolo aspettava finalmente la salvezza, o almeno una nuova vita. Ma finora non l’abbiamo vista. Stiamo peggio di ieri, e forse oggi stiamo meglio di domani. Non siamo al sicuro, abbiamo paura di tutto, e i più forti, altri forti, hanno il sopravvento”. Altro dubbio: quale forma di governo per il nuovo Iraq? Sono in tanti a dubitare che sia possibile una democrazia occidentale, sia per la presenza di una fortissima maggioranza musulmana, ma anche e soprattutto per via dei guai provocati dalla dittatura, che ha diseducato la popolazione alla convivenza civile. Prova ne sia lo stato in cui versa il sistema educativo pubblico, liquefattosi. Tanti si danno da fare per ovviare a tali manchevolezze, come quei giovani e quegli adulti aderenti al focolare che quattro volte alla settimana organizzano un doposcuola per circa 150 bambini e ragazzi in un quartiere povero. Fa impressione vedere i giovani impegnati nell’insegnamento, i ragazzi attenti nonostante il caldo e il desiderio di scappare a giocare” Ma non bastano queste iniziative per risolvere un problema enorme. Alcuni hanno avuto il coraggio di reagire al degrado della convivenza civile. Come l’ingegnere Abdullah, un personaggio che ha dell’epico, a modo suo. “Ero un ingegnere meccanico – mi dice -, un uomo affermato. Per 18 anni ho lavorato al servizio del governo. Ma da cinque anni sono costretto a lavorare in un collegio come responsabile degli studenti. Ero del partito, ma sono stato obbligato a lasciarlo dalla mia coscienza. Ho così lasciato il lavoro senza avere maturato la pensione”. Abdullah una coscienza civica ce l’ha, e potrebbe vivere anche in una democrazia: ma non sono molti quelli come lui. Segni di speranza Dallo sconforto al dubbio, per finire alla speranza. Di segni che la- sciano intravedere un futuro migliore ne vedo non pochi a Baghdad. La generosità in primo luogo: anche quella degli stranieri, dei volontari delle Ong e degli organismi internazionali. Visito l’ospedale da campo aperto dalla Croce rossa italiana a Saodun, protetto dai carabinieri del Tuscania. Lì ho conferma della insopprimibile “vocazione” italiana alla solidarietà. La gente arriva a frotte, si aggrappa alla rete dell’entrata per farsi curare ogni tipo di emergenze: le più crudeli sono le ustioni provocate dalla manipolazione della benzina che mezza Baghdad vende in piccoli bidoni. Purtroppo le prime vittime sono bambini. Ne ho visti alcuni ustionati in modo terribile. Difficile sostenere il loro sguardo. Come quello di Ahmed, nove anni, ustioni sul 55 per cento del corpo, prossimo a un trasferimento a Palermo. Assistito dal padre, non fa uscire dalle labbra un solo lamento: anzi, quando mi appresto a filmarlo, si alza quel che può sui gomiti, e mi sorride. Ma c’è soprattutto la generosità degli iracheni. Nel mio soggiorno a Baghdad sono stato ospite di Haitam e Basnaa, coi figli Santa, Mario e Marian. La famiglia abita una modesta abitazione all’est della città, dove convivono in discreta armonia famiglie musulmane sunnite e cristiane caldee. Un quartiere, Dora, dove le fogne sono intasate, le immondizie accumulate, la delinquenza in agguato; i bambini giocano coi carri armato abbandonati dagli iracheni, le greggi brucano nelle pietraie, gli autobus sputano catrame” Haitan lavora saltuariamente in un magazzino di birra: deve prendere cinque autobus per giungere alla fabbrica, col timore delle violenze dei fondamentalisti. Per venti dollari al mese. La moglie Basnaa, invece, resta a casa coi tre figli, che accudisce con grande responsabilità. I due grandicelli, Santa e Mario, appaiono gracili, nati come sono nei primi anni dell’embargo. Haitan e Basnaa non saranno forse degli indefessi da dodici ore al giorno di lavoro, ma sono sempre pronti a prestare un servizio, a condividere il poco che hanno con chi ha meno di loro, a cucinare per chi non ha più gas” E hanno sempre un sorriso in riserva, come ce l’avevano durante la guerra. Di gente seria se ne incontra ovunque, sono la stragrande maggioranza della popolazione. Tra gli altri, incontro due cugini musulmani, sunniti, Kheder e Ali Muhammad, per- sonaggi originali, profondamente credenti e forniti di una inconsueta indipendenza mentale. Nelle loro parole c’è semplicità e decisione: “Noi e i cristiani siamo sempre andati d’accordo. Perché ora che abbiamo finalmente la libertà dovrebbe andare diversamente?”. Speranza nei cristiani. Ne incontro una cinquantina nei pressi del seminario. C’è la giovane donna che aveva tre fratelli nell’esercito, e che non riceveva da loro nessuna notizia, ma che continuava a pregare per tutti i soldati, anche per quelli americani. C’è la signora gravemente ammalata che per quattro settimane non ha ricevuto nemmeno una medicina. C’è un uomo che ha perso il lavoro – era obbligato a far parte della polizia segreta -, ma ha riacquistato la libertà di coscienza” Tutti, indistintamente, ringraziano Dio e coloro che hanno pregato per la pace, perché il conflitto non è durato che un mese. E, pur essendo nella assoluta totalità contrari al perdurare della presenza americana, e lamentando l’incertezza del futuro per i cristiani, hanno deciso di fare in certo modo come se la guerra non esistesse, “continuando – come dice una giovanissima – a vivere sempre e solo il momento presente che mi è dato di vivere, perché un cecchino potrebbe farmi fuori anche stanotte”. E così il cristianesimo non muore. Tra di loro, anche mons. Salomone Warduni, da noi intervistato prima allo scoppio della guerra (vedi Città nuova n° 7/2003). “La nostra conversazione telefonica – mi dice – è stata l’ultima. Poi il black-out. Le bombe cadevano, mente ora le cose stanno cambiando, anche se la precarietà è, se possibile, ancora maggiore. Ma i cristiani hanno Gesù Cristo, e allora non possono non credere in un futuro migliore del precedente”. Perciò, mi spiega, “i cristiani vogliono costruire un paese unito, in cui ci sia spazio per tutti, nella ricerca del bene comune e della giustizia, da edificare assieme ai musulmani”. Mi passa la dichiarazione che i vescovi cristiani del paese hanno consegnato agli americani e alle istanze internazionali: “Quando Hammurabi ha inciso il suo codice sulla pietra di questa terra, il diritto è diventato la base dello sviluppo della civiltà. Quando Abramo guardò il cielo di Ur, questo si aprì su di lui e per questa rivelazione Abramo divenne il padre di una moltitudine di popoli. Quando il cristianesimo e l’Islam si incontrarono, i loro “santi” rispettivi avviarono le due religioni a una coesistenza rispettosa e reciproca”. Per questo, patriarchi e vescovi “rivendichiamo il diritto di vivere in uno stato di diritto, nella pace, nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza, secondo la Carta dei diritti dell’uomo”. Un ulteriore motivo di speranza viene da un “cartello dei moderati” che sta prendendo piede. A promuoverlo è Alsaid Aiad Jamalalldin, imam sciita di 42 anni, esiliato da Hussein nel 1978. Lo incontro nella villa appartenuta a uno dei più stretti collaboratori del rais, Isat Al- Douri. Palmizi e piscine, viali alberati e fontane di marmo. Jamalalldin è un colto teologo, dalle lunghe mani curate, estremamente cortese, con uno sguardo azzurro che ti penetra nel cuore, pare un leader nato. Ha fondato un movimento d’opinione tollerante, assieme a cristiani e sunniti, senza preclusioni. Le sue parole sono di speranza: “Viviamo la nascita di un mondo nuovo. Attraversiamo un periodo di transizione, dopo un mondo vecchio e arretrato, soffocato dalla dittatura in cui un uomo solo prendeva le decisioni per tutti. Un periodo lungo, che risale nel tempo al di là della dittatura di Hussein, che aveva ereditato un sistema già antiquato. Adesso stiamo vivendo la trasformazione dei fondamenti della società, in modo che sia l’uomo il centro della vita politica con la sua libertà e i suoi diritti, e non il sistema stesso. Abbiamo bisogno di una cultura nuova, di una politica nuova, di un mondo nuovo”. Il suo impegno per l’Iraq è chiaro: “Speriamo che sia un paese dove regni la pace, nella varietà dei punti di vista, delle convinzioni, delle appartenenze religiose e etniche: tutto ciò è ricchezza, non divisione. Speriamo di vedere un esecutivo laico che separi la religione dal governo, e che questo non sfrutti la religione e non la perseguiti”.

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