Difendiamo i dittatori?

Raccontare che in Siria l’inquietudine non viene solo da Assad è un peccato? E che dopo Gheddafi c’è insicurezza? E che dopo Saddam i cristiani debbono andarsene? Ecco il nostro modo nono omologato per fare informazione
Il presidente siriano Assad

Da un anno in qua, su questo sito web abbiamo messo il dito in una piaga purulenta. Alcuni articoli sull’eredità di Saddam, sulla guerra in Libia e sulla strisciante guerra civile siriana hanno suscitato in alcuni lettori una certa reazione risentita: perché difendete i dittatori?

Rispondere necessita argomentare le nostre prese di posizione: in effetti non ci siamo allineati sulle posizioni della grande stampa internazionale e sulle opzioni di un certo numero di cancellerie occidentali. Lesa maestà, insomma. Visto che mass media e diplomazia vanno sempre di più a braccetto.

Abbiamo raccontato, intervistando testimoni in loco, che in Libia le opposizioni al regime di Gheddafi non erano poi così omogenee, non erano tutte attraversate da sincere aspirazioni alla libertà e alla giustizia, contando al proprio interno un’incredibile varietà di formazioni unite solamente dal progetto di abbattere il rais. Al punto che abbiamo paventato il ripetersi dello scenario iracheno, quello provocato dalla coalizione contro Saddam, che ha lasciato un Paese forse più libero ma certo meno sicuro e potenzialmente ridotto a polveriera.

Quello che nei fatti si sta rivelando ogni giorno di più, anche in Libia, è uno scenario di difficile decifrazione: insicurezza diffusa, circolazione incontrollata e incontrollabile di armi, spinte tribali sempre più forti, impossibilità di ritrovare i livelli di produzione petrolifera antecedenti, interi territori che sfuggono al controllo del governo provvisorio…

Nei nostri articoli non si assolveva, mai, il rais dalle pesantissime accuse a lui indirizzate, ma si metteva in guardia contro l’imponderabile del futuro, contro l’atteggiamento neocolonialista della coalizione dei “volenterosi”, contro l’unanimismo di facciata dei rivoltosi che nascondevano un quasi totale disaccordo sul dopo-Gheddafi, contro una diplomazia che s’era lasciata almeno in parte spossessare delle sue prerogative di ricerca della pace.
 
Pur essendo profondamente diverso, anche il caso siriano ci ha portati a non sposare mimeticamente le posizioni dei cosiddetti rivoluzionari, anche in questo caso un’insieme molto composito di aspirazione alla libertà, ma anche di vari interessi: c’è, infatti, chi ha come fine l’istituzione di un clima di terrore (i qaedisti), chi vuole solo guadagnarci qualcosa (i mercenari che, terminato il lavoro in Libia, sono passati sul palcoscenico siriano); chi ha mire antisiriane (non pochi servizi segreti); chi vuole farla pagare agli alawiti (i sunniti, sostanzialmente); chi pesca nel torbido delle diatribe intramusulmane tra sciiti e sunniti (Qatar docet); senza considerare i mercanti d’armi che si fregano le mani (occidentali, in massima parte). Una grande accozzaglia.
 
Detto questo, di fronte alle reazioni dei nostri lettori (pochi) vorrei avanzare quattro ragioni che hanno presieduto alla redazione dei nostri articoli.

Primo: non difendiamo i dittatori ma, come è nostro solito, non ce la prendiamo con la persona del dittatore, quanto con le sue malefatte. I dittaori sono il residuo obsoleto di un modo di governare che ha fatto il suo tempo.
Secondo: da che mondo è mondo, quando un regime viene sostituito è necessario in qualche modo prevedere i confini della transizione inevitabile, perché è possibile che risulti anche peggiore della stessa fase dittatoriale. I cambiamenti consumisti del “tutto e subito” di solito sono dannosissimi.

Terzo: si dice che le minoranze cristiane nei Paesi retti da regimi totalitari, in particolare nel mondo arabo, difendano i dittatori, coloro che nei fatti spesso assicurano loro una certa libertà, una certa degna sopravvivenza. In parte ciò è vero, ci si difende come si può dall’incertezza del futuro. Ma molto spesso quanto affermano queste minoranze corrisponde al sentire della maggioranza del popolo. Spesso nei Paesi dittatoriali la sensibilità democratica, o perlomeno per il rispetto dei diritti umani, è prossima allo zero. E la democrazia non può essere esportata da Paesi terzi.

Quarto: molto spesso, direi quasi sempre, le buone intenzioni dei “democratici” nascondono inconfessabili secondi fini (economici, politici, militari o geostrategici) che non hanno nulla a che vedere con la difesa della libertà e dei diritti umani.
 
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