Diego avanti tutta

Datemi una leva e solleverò il mondo. E' il caso di qusto diacono friulano, instancabile nel portare avanti azioni umanitarie.
Articolo

È accaduto il 24 aprile 2004 a Krizevci, in Croazia. Per la prima volta la cittadinanza onoraria veniva conferita ad un non croato: Diego Mansutti, diacono a Reana del Rojale, comune in provincia di Udine, gemellato con quella città. La motivazione: «Per i suoi meriti quale operatore umanitario e l’impegno a favore del progresso della città di Krizevci ecc. ecc.». Fuori dall’ufficialità, a detta del sindaco Branco Hrg: «Perché Diego è un uomo, un uomo vero».

Quest’“uomo vero” io ho avuto la fortuna di conoscerlo durante una vacanza in Friuli, terra di cui va fiero e che lui conosce palmo a palmo. È una storia, la sua, che meriterebbe ben più spazio di un articolo.

«Come diacono servo cinque parrocchie sparse nel territorio di Reana del Rojale e vivo con mia moglie Serina a Zompitta, una frazione di questo piccolo centro di cui sono stato anche amministratore comunale».

L’attrazione per chi soffre è in entrambi già da fidanzati, quando sognano una famiglia aperta. Ma la spiritualità dell’unità – conosciuta l’anno del terremoto, il 1976 – mette loro in risalto tutto speciale il grande insegnamento di Gesù sul “farsi prossimo” di chi è in necessità.

Con questo spirito, negli anni Settanta, i coniugi Mansutti nella loro azienda di floricoltura insegnano il mestiere a giovani disoccupati; poi lasciano l’azienda ai nipoti e con l’inserimento di ragazzi disabili nasce la cooperativa “Il melograno” per la coltivazione di fiori e ortaggi. Più tardi, per risolvere il problema dell’assistenza sociale di alcuni di questi ragazzi, insieme ai loro genitori danno vita all’associazione “Insieme si può”.

Lungo il percorso non mancano incomprensioni, giudizi, amarezze, cui si aggiungono difficoltà economiche; ma Diego e Serina hanno una fede incrollabile nella Provvidenza, che puntualmente interviene nei momenti più critici. Dal Duemila, Diego, che è perito agrario, insegna materie agricole nelle carceri di Tolmezzo e di Udine, alternando questi corsi ad altri per ragazzi disabili in provincia di Udine, Gorizia e Pordenone. Cura inoltre la potatura di circa 3 mila ulivi l’anno per un’azienda di Cividale e per dei privati, inserisce diversi carcerati nel mondo del lavoro.

Sembra quasi incredibile che il non più giovane diacono riesca a districarsi fra tante attività. E ancora non ho accennato all’esperienza che l’ha coinvolto in prima persona per qualche anno cruciale.

 

«Quel 12 gennaio del ’92 – inizia a raccontarmi mentre mi scarrozza per i siti più belli del suo Friuli – l’amico Renzo Meneguzzo mi telefona per chiedermi di verificare quale aiuto serve dalle parti di Zagabria (la guerra nei Balcani era iniziata nel settembre del ’91). In quel momento dimenticai la guerra coi suoi pericoli e la mia piccolezza e, telefonando al numero lasciatomi dall’amico, annunciai per l’indomani mattina il mio arrivo a Zagabria. Partimmo di buon’ora io e Serina, ignari di cosa ci aspettava là, se non che dei fratelli avevano bisogno di noi.

«Tra posti di blocco e cavalli di Frisia, alle dieci arrivammo a Zagabria, dove trovammo solo desolazione e qua e là colonne di fumo. Al primo posto telefonico, a gesti ci fecero capire che la sera prima la città era stata bombardata e pertanto le linee erano interrotte. Che fare? Ci venne in aiuto un tassista il quale accertò che al numero telefonico in nostro possesso corrispondeva una abitazione nella parte opposta della città. Con la prospettiva poi di una lauta mancia ci precedette sul posto con la sua auto. Fummo accolti calorosamente da Florijan, un focolarino, e subito indirizzati là dove ci aspettava la famiglia di Minka e Rudj, che ci avrebbe ospitati. Entrammo così nel vivo del perché di quella chiamata.

«Tempo prima il vescovo greco-cattolico della Jugoslavia, Miklovs (la Croazia non era ancora diventata Stato autonomo), aveva messo a disposizione del movimento, all’interno del comune di Krizevci, una ventina di ettari di terreno con annesse case, chiesa e un ex convento: la località, a sessanta chilometri da Zagabria, era ideale per una nuova cittadella a cui Chiara Lubich aveva dato nome Faro. A causa della guerra, il cui corso si intravedeva lungo e doloroso, già cominciavano ad affluire lì dalla Vojvodina, dal confine con la Serbia e dalla Bosnia le prime famiglie di profughi vicine ai Focolari. Per venire incontro ai loro primi bisogni, trattandosi per lo più di contadini, si presentava la necessità di coltivare il terreno della cittadella: un progetto che richiedeva l’esperienza di un agrario quale sono io.

«Dopo esserci rifocillati partimmo per Krizevci; ad aspettarci a Faro trovammo Tatiana, con la quale visitammo alcune strutture semiabbandonate o in parte diroccate, dei terreni incolti… Ci voleva davvero fantasia per vederci una futura cittadella!».

 

Al suo ritorno in Friuli Diego, dopo aver riferito a chi lo ha inviato in avanscoperta, già l’indomani ritorna a Faro per elaborare un programma di massima con le forze a disposizione. Da allora non si fermerà più.

«Mentre all’acquisto di quanto serviva per il progetto provvedevano amici del movimento, con l’aiuto dei profughi iniziammo a mettere a coltura diversi terreni. Cercavo di dare una formazione che ricostruisse in loro la capacità di decidere e agire, ma non era facile: chi ero io per porre rimedio ai danni arrecati da tanti decenni di regime comunista? Sembrava che mi intestardissi ad aiutare chi non voleva o non capiva che ero lì per essere fratello. La forza per non mollare quando ripartivo deluso e amareggiato, l’attingevo dalla preghiera e dalle lacrime durante il viaggio di ritorno.

«Verso autunno la cittadella si attivava per sostenere tanti amici sparsi in ogni angolo dell’ex Jugoslavia dilaniata da una guerra fratricida senza precedenti. Per questa nuova emergenza, in Friuli mettemmo in piedi tutta una rete per la raccolta di aiuti umanitari. A Mossa di Gorizia fu allestito un primo magazzino, e proprio da lì iniziai con un altro volontario, Mario Tassin, cuore grande e generoso, i nostri viaggi nell’incognito della guerra».

Saranno più di 150, guidando vecchi tir carichi di generi di prima necessità, destinati non solo alla cittadella croata ma ai molti altri posti dei Balcani via via indicati dagli amici di Faro. Tra mille difficoltà dovute alle nuove burocrazie e ai blocchi alle frontiere di ogni piccolo Stato che ritrovava la sua autonomia (Slovenia, Croazia, Bosnia…); quando non intervengono guasti o dirottamenti per percorsi sconosciuti. Talvolta tra sparatorie e bombardamenti che costringono a rifugiarsi in cantine malsicure, o come quella volta in Bosnia, quando per il gelo il camion finisce in una scarpata».

Interrompo Diego per chiedergli se qualche volta abbia avuto la tentazione di tirarsi indietro. «Mai, perché quella povera gente dei campi profughi – per lo più donne, bambini e anziani – era per noi l’immagine di Gesù abbandonato. E a lui non potevamo dire di no, assolutamente. Quando arrivavamo noi ci facevano festa pur nel loro dolore e, per ricambiare, insistevano per darci anche quello che non avevano: dalla marmellata al centrino ricamato».

Interviene Serina, che in assenza di Diego si sobbarcava l’impegno non indifferente di mandare avanti da sola la cooperativa familiare: «Si sapeva quando partiva, ma non quando ritornava. Qualche rara volta, dopo il racconto di tante peripezie (ma il peggio ci veniva taciuto), non ho potuto fare a meno di dirgli: “Adesso, Diego, sarà la volta buona che ti ritiri”. E invece no! Immancabilmente allestiva un nuovo camion e ripartiva. Comunque ogni sacrificio l’abbiamo sempre fatto con tutto il cuore».

«Talvolta – riprende lui – portavo con me qualcuno dei miei ragazzi disabili nei posti meno pericolosi e quando i camion erano abbastanza sicuri. Più che altro perché si sentissero in grado anche loro, che erano stati aiutati, di aiutare a loro volta. E questo li rendeva entusiasti».

Si può immaginare il lavoro imponente per raccogliere e immagazzinare generi d’ogni sorta per quella gente che aveva perso tutto, ammassata in centri d’accoglienza dove non arrivava niente. «A questo scopo, in varie città del Triveneto, si organizzavano raccolte, lotterie, “cene solidali” o vendite di fiori. Di tutto davamo poi resoconto periodico al ritorno dai nostri viaggi umanitari. E la gente dava volentieri, anche più di quanto chiedevamo».

E mentre Diego coinvolge amici, vicini di casa, parenti, negozianti, imprenditori, parrocchiani, nell’ottobre del 1995 la cittadella croata, grazie al sostegno di tanti, insieme agli edifici ristrutturati vede l’inaugurazione dell’asilo “Raggio di sole”, progetto poi allargatosi all’asilo “Fantasy” di Belgrado e a quello interculturale di Skopje in Macedonia, con bambini macedoni e albanesi di diverse confessioni religiose.

E adesso che l’emergenza è passata? «Quei viaggi umanitari non sono più necessari, anche perché in quei posti l’economia sta crescendo, gran parte dei giovani lavora all’estero e manda a casa valuta. Comunque, in media ogni quindici giorni, continuo a far la spola con Krizevci: c’è sempre tanto da fare! Nel 1999, tanto per dirne una, è iniziato nella cittadella il progetto “Agrifaro”, per cui sono sempre disponibile per consigli e aiuto concreto».

Intanto, si allarga il cerchio degli amici e collaboratori di Diego in tutti i campi, e nascono progetti uno dietro l’altro all’insegna delle idee-forza della spiritualità dell’unità: dal già ricordato gemellaggio tra Reana del Rojale e Krizevci, con visite reciproche di delegazioni e collaborazione in diversi campi; al sostegno alle Caritas a Udine per la Vojvodina, dove sono impegnati diversi sacerdoti greco-cattolici vicini ai Focolari; alla due fabbriche in costruzione a Krizevci su terreni acquistati da amici di Gemona legati a Comunione e liberazione e innamoratisi della realtà della cittadella Faro. In questi anni avevano inserito nella loro fabbrica di macchine per lavorare ferro per l’edilizia una dozzina di ragazzi croati usciti stravolti dall’esperienza della guerra. Ma già questi stessi, con la formazione ricevuta, stanno ritornando come imprenditori nel loro Paese per mandare avanti quelle fabbriche, cui va aggiunte altre del genere in costruzione a Slavonskibrod e Boskhjansibrod. Tutte daranno lavoro a molti giovani disoccupati.

E altro ancora si potrebbe dire, ma bisogna pur concludere. Lo faccio avendo davanti agli occhi Diego in veste diaconale che in chiesa commenta le letture festive: è il brano evangelico della moltiplicazione dei cinque pani e due pesci. Con le braccia allargate brandisce il leggio come se fosse il volante di un tir durante uno dei suoi viaggi spericolati. Il commento è essenziale, efficace, si sente che attinge alla vita vissuta: non ha forse sperimentato innumerevoli volte quella “moltiplicazione”, l’intervento nelle vicende umane della Provvidenza? Sì, tutta la storia di Diego si potrebbe leggere sotto questa visuale.

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