Dickens delle grandi speranze

Duecento anni or sono nasceva il creatore di “David Copperfield” e di altri famosi romanzi.
Charles Dickens

Un veliero stava entrando nel porto di New York. Sul molo l’attendeva una folla impaziente. Mentre si sbrigavano le operazioni di attracco, il tumulto aumentò e alcuni malcapitati, a forza di spintoni, finirono in acqua. Purtroppo ci fu chi annegò. Cosa aspettavano? Parenti, amici immigrati? Anche. Ma i più scalmanati fremevano per leggere l’ultima puntata di un romanzo di Charles Dickens, in arrivo con la nave. Questo tragico episodio denota la popolarità, anche Oltreoceano, del più celebre scrittore inglese dell’era vittoriana.

 

Osannato dalle masse, ammirato da autori come Dostoevskij, Tolstoj, Conrad, Joyce e Kafka, lo era meno da qualche critico, che arricciava il naso davanti alla sua prosa talvolta sconnessa e a certe trame improbabili. Come spesso avviene nel campo letterario, la critica procedeva su un binario e il pubblico dei lettori su un altro. Ne sapevano qualcosa altri grandi narratori del calibro di un Dumas, che vedevano apparire i loro capolavori a puntate sulle appendici dei giornali prima che pubblicati in volume: romanzi letteralmente divorati da un pubblico forse più acculturato di oggi, dove imperano invece tivù e affini, ma spesso catalogati nell’area – considerata un sottoprodotto – della “letteratura popolare”.

 

Ma torniamo a Dickens. Per capire i motivi della enorme popolarità di cui godette a suo tempo (e che sarebbe auspicabile il bicentenario rinverdisse), vediamo a quali fonti attingono i suoi romanzi. Dall’esperienza personale, certo: molti suoi protagonisti, come Oliver Twist, Nicholas Nickleby, David Copperfield, Pip di Grandi speranze, rispecchiano la sua infanzia infelice (mentre il padre era rinchiuso in prigione per debiti, per vivere il dodicenne Charles fu costretto a lavorare in una fabbrica di lucidi per scarpe). A ciò va aggiunta la sua capacità quasi maniacale, esercitata nel lavoro giovanile di cronista, di guardarsi intorno per attingere spunti. Di giorno e di notte Dickens frequentava le strade eleganti e i bassifondi della sua Londra, i caffè alla moda e le sordide taverne, tutto assorbendo e trasformando. Da un unico tipo ricavava magari due personaggi diametralmente opposti; e viceversa, dieci altri gli fornivano gli elementi per combinarli in un unico personaggio.

 

Dalla vita acutamente osservata, dunque, attinse con larghezza. Ma non poteva bastare una semplice fotografia del reale per arrivare a quel calore, a quel ritmo, a quella visione degli esseri umani e della storia che tanto avvincevano i suoi lettori. Charles Dickens non era Émile Zola. È vero: descrisse splendori e miserie della Londra vittoriana, mise in berlina personaggi gretti e ridicoli, stigmatizzò le condizioni sociali repressive del suo tempo, ma pur nelle situazioni più tragiche non perse mai il suo ottimismo di fondo, la sua speranza nelle possibilità dell’uomo di migliorarsi. Non di rado certi suoi personaggi antipatici e perfino “cattivissimi” diventano strumenti di bene, magari a loro insaputa. Nelle sue trame complesse e piene di colpi di scena certe connessioni, certi scioglimenti imprevedibili parlano di interventi provvidenziali. Tutto questo si deve alla sua fede cristiana.

 

Come definirlo allora? Uno scrittore realista? Ma talvolta aleggia nelle sue pagine un clima da favola che sembra suggerire: la realtà è anche diversa, guardiamo più a fondo cosa c’è dietro l’apparenza. Romantico allora, avventuroso, picaresco, umoristico, satirico, tragico, poliziesco, gotico? Dickens è tutto questo, certamente. Possedeva infatti tutti i registri e sapeva usarli sapientemente. Così, novello Orfeo, riusciva a incantare i suoi lettori. Ma lo stesso fenomeno accadeva nelle letture pubbliche che egli faceva delle sue opere, mietendo successi ovunque, sia in patria che all’estero, profumatamente pagato (sì, Dickens è stato anche un accorto amministratore del suo talento).

 

Non per niente da molti è considerato il più grande autore inglese dopo Shakespeare, quello che più ha contribuito a diffondere nel mondo la lingua e la cultura anglosassoni.

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