Dialogues des Carmélites

Il Teatro dell’Opera di Roma inaugura la stagione con “I dialoghi delle Carmelitane” di Poulenc. Musica e testo di scabra contemplazione
Dialogues
Una scena da "Dialogues des Carmelites", regia di Emma Dante. Corinne Winters (Blanche) ph Fabrizio Sansoni-Opera di Roma 2022

Era il 17 luglio 1794 il giorno in cui sedici religiose furono ghigliottinate a Parigi. Georges Bernanos scrisse i dialoghi per un film che non venne mai girato negli anni 1947-48. Nel 1953 l’editore Ricordi propose a Francis Poulenc di trarne un’opera che ebbe un successo contrastato nel 1957. I tre atti e dodici quadri scritti dal musicista attingendo a Bernanos sono stati riproposti a Roma con evidente successo (oggi l’ultima replica).

Le scene di Carmine Maringola sono scabre. La più forte è forse l’ultima: la ghigliottina diventa un quadro in cui la lama si fa una tela candida che precipita ad ogni morte, chiudendo con il canto smozzicato del Salve Regina intonato dalle monache morenti. L’edizione romana privilegia i quadri, anche, nel primo atto, con le grandi riproduzioni di ritratti femminili di scuola francese del secolo XVIII, primi fra tutti quelli del pittore neoclassico e rivoluzionario David. Ma tutte le scene e i costumi (di Vanessa Sannino, quasi delle armature quelli delle suore) offrono una sinteticità davvero efficace in un dramma di fatto completamente al femminile.

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Anna Caterina Antonacci (Madame de Corissy) ph Fabrizio Sansoni-Opera di Roma 2022

La regista Emma Dante finalmente(!) sceglie di non andare sopra le righe e di non interporre troppi personalismi in un lavoro incentrato sulla fedeltà ai propri ideali, la preghiera, la lotta fra morte e vita. Regia non violenta, densa in alcune scene come nella agonia e nella morte della priora, che sente Dio lontano, se ne vergogna e profetizza la fine del convento, sollevato in alto come una Deposizione candida, memore di lamentose figure di Maddalena nei Compianti dell’arte. O come la morte delle suore sovrastata da Blanche autocrocifissa in alto, Blanche la ragazza che entra ed esce dal convento, forte e fragile, ma alla fine eroica.

Poulenc con un testo musicale che è un infinito “recitar cantando privo di ariosi, con una strumentazione ora rarefatta ora prepotente e stringente con echi evidenti da Monteverdi e Verdi, da Debussy e Musorgskij, accompagna, sottolinea una vicenda di complessa analisi della psicologia femminile con gli interventi ora dolcissimi – le preghiere – ora forti del coro.

L’opera è lenta, i quadri si susseguono l’uno dopo l’altro tra pareti molto belle (una è zeppa di crani, forse un ricordo della cripta dei Cappuccini a Palermo?), fosforescenti, in un ritmo contemplativo dove l’azione interessa poco: quel che interessa alla musica è esprimere l’anima.

La direzione esemplare di Michele Mariotti è attenta alle sfumature, al “cantabile” orchestrale (i violoncelli), ai colori e a non coprire troppo le voci dei cantanti (qualche rara volta succede). L’orchestra suona benissimo come il cast funziona perfettamente per limpidezza vocale, attenzione recitativa: Corinne Winters è una Blanche perfetta e commovente, Anna Caterina Antonacci è una intensa Madame de Croissy, Emöke Baráth una Soeur Constance espressiva.

L’unità fra scenografia, costumi, regia e direzione ha prodotto un lavoro davvero soddisfacente in un’opera difficile, che esige una partecipazione silenziosa del pubblico per esprimere il tormento e la luce del sacro in uno dei capolavori del Novecento

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