Dialogo tra due amici davanti al romanzo Chilometrotrenta di Stefano Redaelli

Chilometrotrenta

TONI: Hai letto Chilometrotrenta[1] di Stefano Redaelli? Ho visto il libro, con quella bella copertina, per la prima volta nella vetrina di una libreria di Palermo e non ho avuto il coraggio di prenderlo. Avevo il presentimento che quel libro parlasse di me. Mesi dopo, mi trovavo a Forlì, per misteriose circostanze ho di nuovo incrociato quel romanzo. Altrove, Redaelli, nei racconti Spirabole, narra di simili incontri, ricorrenze, cicli, con se stessi e con gli altri. Mi sentii pronto e lessi quel libro. Non mi ero sbagliato.

 

GIÒ: L’ho letto anch’io. Che mi dici di Radek?

 

TONI: Radek, dopo il lacerante abbandono di Ania, è sull’orlo dell’abisso, non ha appigli di alcun genere, beve, prende psicofarmaci, gli balena l’idea del suicidio e lo programma. Mai avrebbe potuto pensare che la salvezza sarebbe arrivata ad opera di quel cane che lo guarda di lontano, scodinzola e corre lungo il viale alberato, proprio mentre lui sta decidendo come buttarsi dalla finestra. Come nel racconto biblico dell’asina che aiuta Balaam a vedere l’angelo del Signore, anche qui la salvezza è un dono che viene attraverso un animale. Bisogna solo fermarsi, dire di sì, ammettere che sarà così. Anche per questo Radek è un personaggio letterario perfetto, che ha un archetipo biblico in Tobi.

 

GIÒ: La storia di Tobi! Straordinaria! Non ha niente di verosimile, ma è così densa di simboli che parlano della vita concreta, del corpo, del denaro, della malattia, del matrimonio e del fare l’amore, della paura dell’amore e della conquista dell’amore. Se rovesciamo il rapporto tra verosimiglianza e allegoria del libro di Tobi incontriamo il “falso minimalismo” di Redaelli. Parla il linguaggio iperrealistico scarno e ruvido della vita secolarizzata e prosaica, e rivela proprio qui dentro una nuova forma di allegoria… Il correre, ad esempio non è evidentemente salutismo, ma terapia e ascesi “laica”, un modo possibile per rientrare in contatto col corpo. Hai letto il lunghissimo racconto della maratona che sta al centro della narrazione? Non è forse una salita al calvario, con tanto di cadute, brevi umanissime apparizioni che sollevano, tergono il sudore e dissetano?

 

TONI: È vero, non ci avevo pensato! Mi è piaciuta molto la storia del trentesimo chilometro della maratona… Lui, Radek, doveva correre i 42 chilometri della sua maratona, ma nella preparazione alla corsa non aveva mai oltrepassato il Chilometrotrenta. Questo entrare nel vuoto, nell’incerto, del protagonista. Nessuno sa che cosa sarebbe accaduto al suo corpo, a partire da Radek stesso, dal trentaduesino chilometro in poi.

 

GIÒ: E noi siamo lì con lui! A correre ed entrare nel cuore della crisi, della discesa. L’allegoria della corsa ci fa immedesimare in modo immediato e sapientissimo col protagonista e la sua situazione interiore. Ti immagini, invece, se Redaelli avesse preso la strada di un eccessivo scavo psicologico nella crisi esistenziale di Radek, con monologhi interiori, filosofemi, tormenti? Invece è ipermoderno, essenziale e misurato, esattissimo sul piano narrativo.

 

TONI: È significativo che anche Robert, l’amico che ha preparato Radek alla corsa, proprio nel giorno della gara si perda nella folla e Radek sia solo nella sua discesa all’inferno, rappresentata dai dodici chilometri dopo il Chilometrotrenta. Neanche l’ombra di un Virgilio, nella discesa agli inferi!

 

GIÒ: Come vedi è una allegoria molto diversa da quella “a chiave”, quella di Dante o dei mistici. È una allegoria aperta, che risuona e reagisce in modi molto vari. Qualcuno la sta cominciando a chiamare allegoritmo, proprio per distinguerla sia da quella medievale che novecentesca, di Eliot o Montale, per intenderci. Mi sa che Redaelli è in sintonia con gli oggetti narrativi di cui parla Wu Ming nel saggio New Italian Epic. Leggendo quel saggio mi è molto piaciuta questa definizione di allegoritmo:

«“Allegoritmo” è una suggestione. L’ho definito un “sentiero nel fitto del testo”. L’allegoritmo è un percorso, sequenza di passi che portano nell’allegoria profonda. A colpi di machete sfrondiamo l’intreccio, scendiamo il versante della collina fin giù nella valle delle connessioni archetipiche, tocchiamo il mitologema (o i mitologemi) su cui poggia l’opera, studiamo come l’autore lo abbia riplasmato e “ricaricato”, ne ammiriamo i riverberi allegorici sull’oggi. Ogni testo ha uno o più allegoritmi, filza d’istruzioni da seguire lascamente, improvvisando, dall’orlo-superficie del testo fino al mitologema e ritorno. Al lettore trovarli»[2].

 

TONI: Ogni vero romanzo, il lettore attento lo sa, ha più di un livello di interpretazione. Anche se Chilometrotrenta è una lettura così bella che si potrebbe anche fare a meno di trarne una interpretazione anagogica. Mi pare, Giò, che tutto il romanzo affonda le sue radici nella Bibbia…

 

GIÒ: Certamente! E i vari livelli risuonano e chiamano ad entrare e uscire dal testo per poi ritornarci.

 

TONI: Ma vi trovo anche un piano ermeneutico di tipo psicanalitico. Se pensi che Radek ha 38 anni, un’età in cui inevitabilmente tutto si spappola e bisogna fare i conti con il proprio passato. Non ti sembra che Ania sia più di una semplice donna? A me pare che rappresenti quello che è una donna per un uomo: un progetto di vita, un sogno, un ideale, una casa e probabilmente una fede. E se fosse davvero una fede?

 

GIÒ: Infatti si diceva della lettura anagogica! Forse, può essere che Ania sia una fede. Ma io ho adorato la descrizione della cena con la quale la loro relazione scatta su un altro piano. I primi approcci nascevano dalla parola, da quei frammenti di discorso amoroso che sono gli sms, che Radek si ostinava a utilizzare poeticamente (chi di noi non l’ha fatto?), e finalmente si arriva alla cena preparata da Ania. Ogni dettaglio, ogni sapore, ogni sfumatura di colore e consistenza è descritta in modo da assaporarla con tutti i sensi. C’è un eros straordinario e delicatissimo in quelle pagine! Dalle parole al cibo, al vino, al corpo finché l’amore diviene incontro totale. Se si tratta – anagogicamente – della fede allora tutto questo passaggio–cammino-percorso esprime uno struggente bisogno di incarnazione di umanizzazione della dimensione spirituale! Ma quanto è bello l’incontro concreto, ed ogni uomo ed ogni donna l’hanno vissuto o perlomeno desiderato così totale. Meno male che nella Bibbia splende un testo che, nonostante tutte le interpretazioni allegoriche, di fatto, è una celebrazione dell’amore umano. Grazie a Dio esiste il Cantico dei Cantici!

 

TONI: Le vie dello spirito sono fili ad alta tensione, sono cose con le quali non si scherza. Forse Radek, all’età di 38 anni, ha visto morire una parte di sé, e a quella età non sempre si rinasce. Il mondo è pieno di gente che è ferma in quella stazione, come una coscia di pollo dentro la sua gelatina. E solo per un caso Radek non ha fatto quella fine, grazie ad un cane. Il mondo è pieno di romanzi che si fermano lì, opere straordinarie di sublimi fallimenti. Stefano avrebbe potuto fare altrettanto, percorrere sentieri battuti dai grandi, come Ĉechov, Proust, Verga, invece lui va avanti e rischia. Non è che alla letteratura del Novecento sia mancato proprio l’asino di Balaam?

 

GIÒ: Se c’è un autore­ – straordinariamente grande – che per me rappresenta quel che dici della letteratura del novecento è Fernando Pessoa:

 

E in fondo al mio spirito,

dove sogno quel che sognai,
nelle estreme pianure dell’anima, ove ricordo senza motivo
(il passato è una nebbia naturale di lacrime false),
nelle strade, nei sentieri di remote foreste
ove ho supposto il mio essere,
fuggono in rotta, ultimi resti
dell’illusione finale,
i miei sognati eserciti, sconfitti senza essere esistiti,
le mie coorti ancora da esistere, sgominate in Dio.

 

Pessoa non è “un caso patologico” ma un’anamnesi del nostro secolo deluso da tutto, da fedi e filosofie che l’hanno separato dalle fonti simboliche, archetipiche dell’essere umano, dagli dèi e dal Dio vivente, quindi dalle cose e da se stesso.

Infatti alla letteratura del nostro secolo manca il corpo, la terra, non tanto in senso letterale ma anche e proprio immaginale, e gli scrittori sono spesso degli ulissidi che errano senza dèi e senza mare in cui navigare, come è stato appunto perČechov, Verga, Proust, che proprio per questo hanno dovuto cercare nella letteratura la propria salvezza!

 

TONI: Chilometrotrenta è una poetica, una visione del mondo, dal momento che Stefano porta avanti la storia lì dove altri l’avrebbero “posata”, e prova a sfondare quel muro di gomma nel quale la storia della letteratura ha disegnato i mille esemplari dei vinti.

 

GIÒ: Certo che è una poetica! E dice sia la fiducia nel senso-direzione della vita, sia il rischio mortale che la vita è!

 

TONI: Una impresa titanica, come star fermo su un corda tesa che ai suoi estremi ha due bestie feroci: il pietismo e il patetico. Che ne dici?

 

GIÒ: Dico che grazie a Dio – e a Redaelli – non c’è traccia né dell’uno né dell’altro     in Chilometrotrenta…

 

TONI: Secondo me tra l’inizio e la fine del romanzo si delinea anche una spirabola. Non so se sei d’accordo, Giò. Siamo alla fine del racconto e Radek è rimasto lì in piedi, elegante e leggero, come il clown che chiude il romanzo: con un ombrello, sospinto da un vento dal basso. Tutto l’opposto del volo dalla finestra che Radek si figura nell’incipit.

 

GIÒ: Sì, è chiaro! È piaciuto molto anche a me il neologismo della “spirabola”…Un’idea dello scrivere che Redaelli ha elaborato nelle sue opere prime, principalmente racconti brevi, l’intuizione iniziale della sua poetica, che poteva nascere solo da un fisico convertito alla scrittura: l’intento “quasi” scientifico di scoprire e raccontare nelle vicende quotidiane la dinamica della vita stessa, una dinamica che si dispiega vivendo, tentando l’impresa di una letteratura non riduzionista né moraleggiante, di una narrazione che non spieghi o – peggio – “insegni qualcosa” ma che si offra al lettore come proposta di ricerca e sperimentazione del senso e della direzione della vita nel vivo del suo svolgersi.

 

TONI: Sì, e lo fa con una immagine di leggerezza, di gioco acrobatico e imprevisto, nel quale la fine rovescia l’inizio. Gioco e ed equilibrio, le opere veramente riuscite hanno questa capacità: dire le cose più difficili con leggerezza, con ironia, con distacco… Umanissima dote, così umana che alla letteratura avrebbe potuto insegnargliela solo un dio… Hermes, Mercurio, immagine dello Spirito che legge ogni cosa in trasparenza?

 



[1] S. Redaelli, Chilometrotrenta,San Paolo Edizioni, Milano 2011.

[2] Wu Ming 1, New Italian Epic, Einaudi, Torino 2009.

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